Ci sbagliamo. Capita, vedendo teatro, di essere infastiditi da qualcosa, magari dalla fama che quello che stiamo guardando già porta con sé. Annusiamo odore di moda e ci ritraiamo. Oppure, semplicemente, non capiamo. Mi è successo di fronte al “fenomeno” Babilonia Teatri. Il loro primo successo, made in italy, mi aveva lasciato perplesso, con quello stile a litania-invettiva che sapeva bene dove collocare buoni e cattivi nel gran demenzaio che è l’Italia. Scrivevo:
Lo spettacolo vincitore del Premio Scenario, made in Italy di Babilonia Teatri, ha tutti gli splendori, le ingenuità, gli schematismi dell’opera prima: una dichiarazione frontale, ironica, sul disagio di vivere nel Paese delle chiacchiere, dei pregiudizi, delle parrocchiette, dell’orgasmo scatenato solo dalla vittoria delle squadra del cuore. Gli attori snocciolano litanie di luoghi comuni a perdifiato su ritmi rock, davanti a una scena di luminarie di paese intorcigliate molto pop. Tutto è divertente, alquanto “graffiante”, uno Zelig un po’ più cattivo. Tutto è abbastanza facile, contrario e simile a quelle chiacchiere da bar dove ogni cosa è chiara, sta al suo posto, il bianco e il nero: gli altri sono sempre i cattivi e noi, con uno sberleffo, chiamiamo tana.
C’era qualcosa insieme di affascinate e di repellente in quello stile frontale, diretto, violento, volgare. Tanto, che dopo questo giudizio, non mi sono mai perso uno spettacolo della compagnia veronese. Tutti simili, con una cifra non casuale, che rappresentava un modo sofferto, estremo di cercare una lingua teatrale per analizzare il disastro che ci circonda. Quel martellante ripetere cliché, affondare cinicamente il coltello nella piaga di una repubblica basata sul chiacchiera che scivola nel vaniloquio e nel pregiudizio, a poco a poco mi ha conquistato.
Gli spettacoli di Valeria Raimondi e Enrico Castellani sono così, credo: conquistano o respingono. La loro virtù è quella di restituirci la volgarità dei nostri tempi, delle nostre menti bruciate dalla semplificazione televisiva, superficiali, chiuse, assediate da un’aggressività mascherata da paura (o viceversa), con i dovuti interessi.
Così è con quest’ultima opera,in prima assoluta al The best of, che segna un limite, forse la chiusura di un ciclo, o un rilancio del loro personalissimo stile. Dopo quattro opere monotematiche e monomaniacali (ognuna puntata su un’immagine, con parole snocciolate come mitragliate per lo più da fermi), ora compongono un affresco che racchiude in circa un’ora e mezza Underwork, made in italy e Pornobboy.
Alle Fonderie Limone di Moncalieri, lo spettacolo è annunciato alle 23 e inizia poco prima delle 24: nonostante l’ora, la sala è piena di un pubblico in buona parte di fan, venuti anche da lontano, che alla fine decreterà ai quattro veronesi (ai due autori bisogna aggiungere Ilaria Dalle Donne e Luca Scotton) un trionfo da curva sud. Sono vestiti uno di verde, uno di bianco, uno di rosso i tre attori, e iniziano a sparare frasi fatte con il loro ritmo, a parlare di lavoro, a mandare a lavorare gli sfaticati barboni, a cercare lavoro, non trovare lavoro, ma chi cerca trova, perché underwork, sotto sotto, sotto il lavoro, lavoro c’è, e via slittando, con punte di irresistibile comicità, verso altre frasi, luoghi comuni, che ogni tanto si impennano in un dialetto italianizzato che prende le distanze dalla lingua italiana, che rimanda al famigerato “territorio”, a tutte le piccole patrie, tribù, pregiudizi.
Una parola ne genera un’altra, un disgusto ne provoca uno ancora maggiore, una cascata di repulsioni che diventano odio, bestemmia, consolazione da canzonetta. È un piacere farsi rapire dalla loro “unilateralità”, guardarsi deformati nel loro sberleffo sotto le luci pop di made in italy, mentre evocano la superdiretta dei funerali di Pavarotti con passaggi delle Frecce Tricolori, mentre agiscono la solitudine, dando voce a ciò che sta “fuori scena”, all’osceno, al pornografico del nostro pensiero e comportamento nazionale, mentre affermano un sesso immaturo con protesi di luci, con estasi per i gol della nazionale, sotto cascate di coriandoli, bianco-rosso-verdi.
Certo che possono disturbare, possono apparire senza pietas, unilaterali, estremisti. Ma sono necessari, chirurgici, portatori di un realismo incontrovertibile che diventa magica operazione di psicoanalisi immaginale collettiva. Con quel loro stile franto, rap come intonazione, punk come inconciliabile strappo, ferita: con qualcosa che richiama i disgusti di Thomas Bernhard, ma con una nota profondamente personale.
Dopo essersi dimenati, si ricompongono, di nuovo in tre, davanti a un cartellone con le loro icone come manifesti pubblicitari (chi dice che il nostro non è il paese di una pubblicità che sembra rivolgersi a dei cretini, provi a vedere fino alla fine un film di Canale 5). Indossano lui una maglietta col Che Guevara, lei un’altra con una sagoma di madonna (Maria di Nazareth, non Veronica Ciccone), la terza una t-shirt “I love NY”. Sono noi, come siamo, oltre le ideologie, con le idee molto confuse, pronti a urlare a turno col pugno chiuso o il saluto romano, a chiedere sangue, spettacolo, vittime da triturare nella gogna mediatica, esauriti in un teatro dell’inazione, tutto mentale, antidrammatico, insieme patetico e inane.
Prima, al momento dell’estasi da gol, da sotto una maglia ne era spuntata un’altra con su scritto “Io sto bene”. Non stiamo tanto in salute, noi, invece, che siamo i loro doppi e i loro autori. Si fermano, ogni tanto, attoniti, con gli occhi spersi, per ricordarcelo, in alcuni secondi di insopportabile silenzio dopo tante parole. Poi continuano. Poi si fermano. E questa volta per sempre. Un pene di metallo, in alto, alle loro spalle, grande, vomita una gorgogliante schiuma bianca che a poco a poco li sommergerà: peccato, solo, che non arrivi ad annegare anche noi, in platea.