JESUS

jesus è il nome del fidanzato di madonna
jesus è un paio di jeans
jesus è una miniserie televisiva
jesus gioca nell’inter
jesus tifa per suor cristina
jesus è il miglior amico del grande lebowsky
jesus è l’uomo più famoso del mondo
jesus lo conoscono tutti
jesus è di tutti
tutti per jesus
jesus per tutti

Jesus è una donna sola
In uno spazio neutro
Sola con un agnello
Candido
Immacolato
Quell’agnello è destinato alla tavola e al ventre.
Da un lato schizza verso la cucina, dall’altro verso il Golgota.
Da un lato verso Betlemme, dall’altro verso un letto di patate e rosmarino.
Jesus è uno scioglimento conflittuale e irrisolto.
Volontariamente e artisticamente schizofrenico.
La donna entra in scena trascinando un sacco nero dell’immondizia sulle note del Così parlò Zaratustra di Strauss.
Nel sacco la sua vittima sacrificale.
Quello che officia è un rito cannibale.
Un rito blasfemo.
Un rito senza più nessuna liturgia da rispettare.
Sulla sua testa una scenica aureola di luci.
Jesus è pietà e dissacrazione.
È infinito accoglimento e cinico rifiuto.
È il mistero del sacro e macelleria mediatica.
Jesus è un punto di domanda.
Spesso sopito. Assente. Respinto o ignorato.
Capita che torni a bussare. Ci si pari davanti. Improvviso. E sbarri la strada. La ostacoli e la blocchi. Senza remore né pietà.
Un punto di domanda che non ha risposta. Non una. Non data. Non preconfezionata.
Jesus è stato un uomo.
È diventato una religione, due, tre, quattro…
È diventato un credo, un simbolo, una speranza, una ragione, un esempio, una guida, un rifugio, un bersaglio.
Chi è oggi. Cosa rappresenta e chi lo rappresenta.
Chi ne ha bisogno.

CREDITI

di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco
parole di Enrico Castellani
con Valeria Raimondi
e con Enrico Castellani
scene Babilonia Teatri
luci e audio Babilonia Teatri / Luca Scotton
costumi Babilonia Teatri / Franca Piccoli
organizzazione Alice Castellani
grafiche Franciu
foto di scena Marco Caselli Nirmal e Eleonora Cavallo
produzione Babilonia Teatri
in coproduzione con La Nef / Fabrique des Cultures Actuelles Saint-Dié-des-Vosges (France) e MESS International Theater Festival Sarajevo (Bosnia and Herzegovina)
in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione
con il sostegno di Fuori Luogo La Spezia
laboratorio teatrale in collaborazione con l’Associazione ZeroFavole
realizzato con il contributo della Fondazione Alta Mane Italia
lo spettacolo è stato scelto da Emma Dante per il 67° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
produzione 2014

“Come sempre magnifici. Ogni spettacolo di Babilonia possiede allo stesso tempo un’intima coerenza poetica e l’originalità che meraviglia in maniera diversa. Una denuncia che però rivela insieme, dolorosamente, un vuoto. (…) Potente, lunghissimo, l’applauso del pubblico al termine, per uno spettacolo capace, certo, di aprire accesi confronti. Un altro compito del teatro?”

Valeria Ottolenghi

RASSEGNA STAMPA

Di fronte alla prima scena del Jesus di Babilonia Teatri, che debuttò a Modena e che sarà il 10 giugno al Gobetti di Torino, mi sono venute in mente due cose.

La prima è l’inaspettata presa di posizione di scrittori come Peter Carey o Michael Ondaatje (oltre che di tanti altri, negli Stati Uniti e in Francia). Intendo la disapprovazione dei vignettisti di Charlie Hebdo, in difesa dell’emigrante arabo, reietto delle periferie urbane: come se, pensavo, il rispetto e il molto più del rispetto che dobbiamo ai migranti, di qualunque Paese e religione, avesse un reale rapporto con le vignette e la libertà di disegnarne.

La seconda è una frase di George Steiner nel libro-intervista La passione dell’assoluto. Benchè la sua rivendicazione identitaria (Steiner è ebreo) appaia eccessiva, come non condividere ciò che dice riguardo l’Islam? «Ci sono due cose su cui non si può discutere: l’abbandono di tutte le scienze a partire dal XV secolo: le nozioni di fatto non sono riconosciute. Poi la sorte riservata alle donne: metà dell’umanità trattata come essere inferiore».

I due scrittori, l’australiano e il canadese, e il critico inglese mi sono venuti in mente ascoltando la sarcastica litania di Enrico Castellani mirabilmente recitata da Valeria Raimondi: «Gesù è in ogni osa/ Gesù è in ogni luogo / Gesù è dappertutto / Gesù ti vede / Gesù ti guarda / Gesù ti ascolta / ho sempre pensato che fossero solo modi di dire / poi ho deciso di fare uno spettacolo su Gesù / e ho scoperto che è proprio così / Gesù è in ogni cosa / Gesù è in ogni luogo» segue un’impressionante serie di aggettivi: «Dove mi trovo Gesù / tatuato/ dipinto / affrescato / scolpito / intarsiato / stampato / inculcato / messaggiato / twitterato».

Le reazioni del pubblico sono state duplici: che Babilonia non avesse affondato il coltello e che lo avesse affondato troppo. Ovviamente si può valutare come si crede. Ma le accuse di blasfemia, al pari di quelle rivolte ai critici di Maometto, che cosa significano? Che cos’è la blasfemia? Che rapporto c’è tra la propria opinione su Gesù, o su Maometto, e l’eventuale disinteresse verso gli islamici (ma anche verso i cristiani) reietti? Personalmente ho una sola religione, il romanzo, e un solo dio, Cervantes, suo capostipite. Nel mondo in cui vivo e leggo, cosa dovrei fare se non girare con la pistola in tasca? Per fortuna Babilonia non ha pistole da nessuna parte, ha solo parole, fantasia, energia.

Alla litania seguono almeno due scene memorabili: quando lo stesso Castellani e Vincenzo Todesco puntano una specie di cannoncino contro il pubblico e gli sparano addosso migliaia di souvenir, immagini del Buon Pastore. L’altra scena è quando l’agnus dei si materializza, discende dall’alto dei cieli e finisce in un mucchio di patate, ossia cucinato al forno e golosamente gustato da Valeria Raimondi. Resta una domanda. La scena finale che comincia con “credo nelle chiese di pietra/le chiese in minuscolo/credo nel loro silenzio”, è atto di fede in un cristianesimo primitivo o è ancora derisone, come il complessivo uso linguistico e sonoro dei materiali pop, presenti fino a quest’ultima scena?

Il presepe Golgota del folgorante finale di The End fa da ponte verso Jesus, il nuovo spettacolo dei Babilonia Teatri che, ritrovando la scabra frontalità e la struttura antinarrativa dei primi lavori, danno l’assalto alla figura di Gesù. O meglio, a quello che rappresenta. Sacerdotessa che dice, scandisce e balla tra agnelli sacrificali da mettere al forno con le patate e santini da sparare sul pubblico, Valeria Raimondi scarnifica il simbolo per rifrangerlo nei suoi infiniti riverberi. Il mistero del sacro e il trionfo del pop, la preghiera e il gesto iconoclasta, per dire che, nonostante tutto, da qualche parte, c’è ancora qualcosa che ci spinge a interrogarci sul nostro bisogno di spiritualità. Fosse anche solo per fare i conti con la morte e spiegarla ai nostri figli. Uno spettacolo laico che ammette l’impotenza della sua stessa visione.

Come sempre magnifici. Ogni spettacolo di Babilonia possiede allo stesso tempo un’intima coerenza poetica e l’originalità che meraviglia in maniera diversa. Così anche con “Jesus”, visto al Teatro al Parco, una denuncia che però rivela insieme, dolorosamente, un vuoto. Perché cosa rispondere infine alle domande di un bambino sulla necessità della morte, la sua ineluttabilità? Anche la nonna? anche la mamma o il fratellino? senza superare quella soglia vertiginosa: “anch’io? anch’io devo morire?”. Attrice straordinaria, Valeria Raimondi entra in scena con i tacchi alti dorati, la giacca dagli alamari dorati del circo, i modi accattivanti del ritmo incalzante della gioia da condividere con il pubblico: porta con sé un sacco che appenderà in alto, al centro della scena – e che rivelerà poi contenere un candido agnello, simbolo sacrificale. Si ride alle prime scene, lei che si muove danzando mentre ricorda gl’infiniti modi in cui è noto Jesus: “è provocazione e tenerezza, sacralità e dissacrazione. E’ critica sociale e riflessione intima”. E così esattamente è lo spettacolo, attraversato anche da un filo metateatrale: avevano scelto questo tema, ma come svilupparlo? Sì: Gesù è ovunque, affrescato, dipinto, tatuato, che ti guarda, ti ascolta… ma si moltiplica anche nella posta tra i depliant dei testimonial di Geova, nella marca dei jeans, nelle copertine delle riviste d’ogni genere. E così Papa Francesco, i vari titoli di libri all’autogrill… Un forte rumore e vengono “sparati” con il vento tanti santini… Ma c’è il dolore ignorato per le strade – e le istruzioni per l’uccisione dell’agnello pasquale, riversate sulla scena tante patate. E si esplicita la sfida, la voglia di libertà assoluta, senza un dio che sorvegli: e scende dall’alto l’agnello su cui cadrà pioggia d’oro durante quella sorta d’invettiva. Ma poi Valeria Raimondi indosserà una tunica bianca e, come in una nostalgia d’infanzia, in ginocchio, dirà la poesia/preghiera delle chiese di pietra… Infine, tra le note dell’Alleluja, s’intravedono sul fondo due corpi nudi, Adamo ed Eva, un uomo e una donna che si avvicinano per amarsi. Qualche spettatore è uscito, forse turbato, indignato. Potente, lunghissimo, l’applauso del pubblico al termine, per uno spettacolo capace, certo, di aprire accesi confronti. Un altro compito del teatro?

Sul pubblico di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani volano santini. Il nome è al neon e un agnello penzolante ricorda l’immagine pittorica di Zurbaran

Loro sono così. Prendere o lasciare, come ciò che rassicura perché ritrovato. Una superficie di retorica, luoghi comuni declamati, incalzanti elencazioni di stereotipi. E sotto una pasta sempre più morbida di dubbi esistenziali, domande senza risposte e sottile ironia che rende il “teatro di ricerca” sopportabile. A volte la crosta si crepa e la tenerezza emerge, in prima persona.

È successo con Jesus, ultimo lavoro di Babilonia Teatri a chiudere il cartellone dell’Altro Teatro al Camploy. Chi chiede a Valeria Raimondi ed Enrico Castellani di andare avanti (e oltre quel riconoscibile linguaggio Pop) dovrà cercare il nuovo negli effetti che gli eventi hanno prodotto nel duo. La maternità, la maturità stilistica, ad esempio. La prima ha smussato alcune punte aggressive aumentando però il tasso di soggettività e quindi di gratuità di alcune affermazioni e il rischio populista. La seconda ha trasformato in immagini compiute alcune intuizioni nate come esperimenti.

Ora s’intuisce con più convinzione che il lavoro passa sempre dall’emozione e preferisce l’approccio emotivo a quello analitico. L’emozione di santini fatti svolazzare nella platea gremita, il nome al neon di Jesus e quell’agnello appeso che tanto ci ricorda l’immagine pittorica dell’Agnus Dei di Zurbaran (citata anche sulla copertina di Cainodi Saramago). La conoscenza del “problema Gesù” non è richiesta, Valeria Raimondi ci mette la faccia e i suoi dubbi, così, senza pretese filosofiche, né tanto meno teologiche.

Il problema è piuttosto il linguaggio e il suo abuso. Ci dice, come già fece Pasolini, che preferisce “le chiese di pietra” e un “paradiso per tutti”, citando l’operazione Living Theatre con quel profetico Paradise now. La crosta invece è pop: primo perché cita se stessa. La musica ad alto volume, la declamazione a microfono ci riporta agli spettacoli precedenti Pinocchio e Lolita, l’agnello appeso pure. Là erano teste di animali, crocefissi (una ossessione?), qui il simbolo di Dio sopra trenta chili di patate. Poi è pop perché, come diceva Andy Warhol per la serie crash, quando si è nauseati dall’onnipresenza dell’immagine basta diffonderla ulteriormente. E ancora è pop nella scelta del ritmo e dello stile con cui render assordante le anafore, i chiasmi e il ritornello “Jesus” che scivola dalla moda alla musica, dalla pelle di un tatuaggio all’immagine di quel bambino e del presepe che tanto ci ricordano Natale in casa Cupiello.

In questa babilonia di suggestioni visive e comandamenti martellanti, pieghe di tenerezza allentano la morsa della retorica. Pensiamo alle domande del piccolo Ettore che chiede e ci chiede del mistero della morte, e a una madre che non sa cosa rispondere. Quelle domande all’insù, autobiografiche, in una ideale via crucis a tappe di conoscenza, valgono più dei personal jesus, danno verità al gioco creativo di intrecciare l’agnello di Dio con quello che voracemente viene consumato nelle pasque borghesi.

«PERCHE’ si muore mamma? Perché si vive mamma?». E già che è Natale e c’è il presepe: «Perché Gesù è stato crocifisso?». Quindi il domandone: «Ma se tutti dobbiamo morire, che senso ha vivere?».

Sono i punti interrogativi del piccolo Ettore, tre anni. Domande semplici ma dalle risposte estremamente difficili. E la difficoltà, quasi l’impossibilità, nel trovare le risposte sono la dimostrazione della fragilità di questo mondo (davvero?) adulto. Questo il punto di partenza di “Jesus”, ultimo e scoppiettante spettacolo di Babilonia Teatri che l’altra sera ha aperto allo Sperimentale l’undicesima edizione di TeatrOltre, rassegna ormai (e purtroppo) unica.

Per dare risposta a queste domande Enrico Castellani e Valeria Raimondi, fondatori di Babilonia, passano inevitabilmente per Cristo. Per la sua presenza, la sua spettacolarizzazione e mercificazione. In sala cadono centinaia di santini mentre Valeria Raimondi è padrona del palco: elenca i diversi significati, spesso i luoghi comuni, che accompagnano la figura di Gesù.

Non mancano critiche alla struttura e alla gerarchia della Chiesa.

Lo spettacolo a parte qualche episodio rilancia la necessità di tornare a una certa intimità, se non spiritualità, a trovare la sincerità che richiedono le domande che stanno alla base della rappresentazione.

Domande che disorientano gli stessi protagonisti e autori della messinscena. In altre occasioni lo stesso spettacolo è stato recitato da Enrico Castellani, da entrambi e perfino dal piccolo Ettore. Alla fine applausi, molto meritati, da parte di un pubblico più curioso che giovane.

Sembra un ritorno alle origini. Alla forza, alla sfacciataggine, alla sensazione di nervi scoperti che ci colpì tutti, quando nel 2008 vedemmo made in italy, primo manifesto della poetica di Babilonia Teatri. Dopo aver imboccato altre strade, talvolta divergenti come è accaduto con Pinocchio e Lolita, Enrico Castellani e Valeria Raimondi tornano a quel teatro “di necessità”. Che è una parola davvero troppo consumata. Ma è la sola che spieghi perché si devono dire le cose, perché a certe domande bisogna dar risposta.

A un bambino che chiede “Perchè si muore, mamma?”, una risposta va data. Quella domanda, Ettore, il loro bambino, l’ha posta con la naturalezza di un’età, 3 anni, in cui nella mente si disegnano -a colori di favola e a forma d punti di domanda – le immagini della vita e della morte. Gesù bambino. Gesù crocifisso. “Avremmo potuto mentire. Dire di no. Che non tutto finisce. Che questo è solo un passaggio. Che la vita vera è altrove. Avremmo potuto rassicurarlo. Dirgli che Gesù ci salva e ci vuole bene”. Da qui parte  Jesus  e qui Jesus ritorna. Scabro, senza fronzoli come made in italy, capace di smuovere discussioni o di prestare il fianco ad accuse di buonismo e superficialità, Jesus è invece uno spettacolo di interrogativi, asciutto, coinvolgente. Per chi questi problemi se li pone, of course. Dimostrazione della necessità di un Paradiso. Qualunque esso sia, magari personale. Ricognizione su un personaggio pervasivo, mediatico, virale. Che alla vita e alla morte però dà senso e giustificazione: Jesus. Il Gesù dei Vangeli. O quello sull’etichetta dei jeans. O quello che si è fidanzato con Madonna (nel senso della cantante). Un Jesus Superstar che occhieggia dalle tele delle chiese, dalle copertine dei dvd, dai libri sull’espositore all’autogrill. Un Jesus pop, per rilanciare l’etichetta che Stefano Casi mette nel titolo del suo libro (per Titivillus) sul teatro dei Babilonia. Tanto pop che non si vergogna di farci ascoltare insieme Verdi e i Depeche Mode, Schubert e Vasco Rossi.

Vicenza, al via il tour del nuovo spettacolo di Babilonia

Come si racconta a teatro Gesù? Come si porta in scena la storia più pop e più classica del nostro immaginario? In quest’impresa si è cimentata la compagnia veronese Babilonia Teatri. Il loro spettacolo “Jesus” ha chiuso il 67° Ciclo di spettacoli classici al Teatro Olimpico, diretto da Emma Dante. Un ciclo coraggioso e intenso che ha avuto il merito di saper essere incosciente, affiancando alla polvere del teatro coperto più antico del mondo le voci più innovative del panorama teatrale nazionale e non solo.

Valeria Raimondi e Enrico Castellani, insieme nell’arte e nella vita, hanno dato vita a una riflessione sul senso dell’essere credenti oggi e sull’origine della necessità di una fede.  L’inizio è buono: intelligente e ironico, abbastanza cinico da renderli riconoscibili, abbastanza mordace da creare una sintonia immediata con il pubblico. Con il loro immancabile gioco alternato di voci, ci ricordano che Gesù è dappertutto. Tutti ne conosciamo la storia, tutti siamo intrisi di cattolicesimo e tutti siamo convinti di poter dire qualcosa su di lui. Il gioco metateatrale («quando parlavo del mio spettacolo, tutti dovevano dire la loro») è efficace e chiama in causa ogni singolo spettatore. Nessuno può né deve sentirsi escluso. (…)

Efficace e apprezzabile il loro esporsi e mettersi a nudo fisicamente e interiormente come coppia e come famiglia. In scena sfilano dialoghi con il figlio sul senso della morte, si materializzano nudi come nuovi Adamo ed Eva, raccontano come cambia l’approccio alla spiritualità quando si diventa genitore e nasce l’esigenza di dare risposte e protezione. In questa sezione, più tenera e intima, si inserisce anche la presenza in scena del figlio Ettore di tre anni: all’inizio e alla fine (all’Olimpico solo raccontata per questioni pratiche: impossibile far calare due corde dall’alto per creare un’altalena) è il suo sorriso che offre la chiave di lettura. (…)

Uno spettacolo che sa essere ironico e tenero, ma che avrebbe forse bisogno di una strutturalità più forte e una ricerca più approfondita intorno a uno temi più difficili e ampi della nostra civiltà. Nel complesso due le scene che appaiono più riuscite per il loro saper oltrepassare la soglia della semplificazione: la danza dionisiaca sulle note di “Personal Jesus” nella versione di Marylin Manson (un vero e proprio inno al paradiso personale di ognuno di noi) e il dialogo tra madre e figlio che ha tutto il sapore di un segreto raccontato in scena con generosità.

Lo spettacolo sarà in Veneto a dicembre, il 16 al Teatro Verdi di Padova, e il 3 marzo al Camploy di Verona.

Il primo fine settimana del festival “Vie” ha riservato ottime prestazioni da varie “giovani” compagnie.

La bella notizia proveniente dal primo week-end di Vie Festival è che il teatro produce ancora un possibile ricambio generazionale. Non si tratta di una sorpresa assoluta, poiché Babilonia Teatri, ad esempio, potrebbe essere ormai considerata una certezza nel panorama italiano, ma per la sua ancor breve storia ad ogni nuovo spettacolo risulta inevitabile rivalutarne le potenzialità  e la crescita.

Presentato in prima assoluta al Teatro E. Fabbri di Vignola, il nuovo allestimento della compagnia, Jesus, ha forse confermato più le prime che la seconda, ma è comunque una nuova, interessante tappa del suo percorso volto a un’indagine irriverente e sapida sulla nostra società. Qui è il tema del sacro, della fede, della necessità  di riorganizzare il pensiero alla ricerca di ataviche risposte che viene trattato con la consueta, pregnante e disincantata arguzia. Il Babilonia-pensiero si affastella su parole e immagini che si susseguono magari con alterni risultati, ma sempre nella coerenza di una disamina convinta e argomentata. (…)

Prendete Vie Festival che da 10 edizioni a Modena e dintorni scandaglia il teatro contemporaneo a caccia di dubbi e urgenze; prendete i Babilonia Teatri, tra i gruppi di ricerca più scevri da condizionamenti e quindi liberi di affrontare temi-tabù come la rimozione della morte in The End, o il coma e il faticoso ritorno alla vita come in Pinocchio; prendete infine la forza e la schiettezza di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, i Babilonia Teatri appunto, i quali, di fronte a domande improvvise e spiazzanti di Ettore, il loro primogenito di tre anni, sulla vita e sulla morte, sulla nascita e sulla crocefissione di Gesù , non cambiano discorso, ma prendono in seria considerazione la sua coscienza che si interroga.

Ecco, prendete, mescolate bene questi ingredienti e il risultato è presto detto: il debutto in prima assoluta della nuova produzione dei Babilonia Teatri che di certo farà parlare, discutere. In una parola: Jesus.

Dopo aver attraversato storie diverse e molto popolari, i Babilonia sono approdati naturalmente a “quella più pop in assoluto, con un personaggio così familiare da conoscerne tutti nascita, vita e morte”. Fatta la scelta, appena intrapresa la ricerca, si rendono subito conto quanto i comportamenti, i ragionamenti, in pratica tutta la nostra cultura sia permeata della figura di Cristo; in pratica “Gesù è ovunque!”. E già! Una scoperta invece meno ovvia, non scritta, né detta, ma dedotta dopo aver visto lo spettacolo e dialogato con i suoi creatori, è che all’origine profonda di questa ultima opera c’era proprio il tentativo di dare una risposta di amore, di fiducia e di apertura, quindi una risposta in pratica “cristiana”, al mistero della vita e della morte sollevato con i suoi incalzanti “perché” dal piccolo Ettore.

Alla base del Jesus dei Babilonia c’è in sostanza un’indagine cristologica onesta e autentica, carnale e spirituale. Certo non mancano le scontate prese di distanza dalle istituzioni ecclesiastiche, le prevedibilissime condanne degli scandali, la banale idiosincrasia al “religioso”, l’ingenua confusione fra teologia e dogmatismo. È  come se, prima di mostrare con ammirevole audacia il loro grumo di dolore, il loro sincero smarrimento di fronte a una crisi esistenziale, il loro fascino per Gesù che consola, “morto e risorto”, il loro “credo nelle chiese di pietra”, la coppia Valeria e Enrico abbiano avvertito la necessità di permettere e ribadire una incontaminata laicità attraverso un excursus ironico, a tratti anche arguto, ma non illuminante, sulle deviazioni, mercificazioni e strumentalizzazioni religiose. Ma usciti dal tunnel del sarcasmo laicista, il resto dell’opera prende il volo in perfetto stile Babilonia: il recitato è martellante, fortemente cadenzato nel tentativo di comunicare oggettività, i momenti musicali vibranti e necessari allo sviluppo drammaturgico, gli effetti luce pochi ma violenti, la scenografia assente. Meno di 60 minuti (…) che colpiscono per commovente e profondo anelito di ricerca di amore e di fede.

Il Verbo riassume in sé la tematica – Dio, parola fatta carne – e la modalità espressiva – flusso di parole che contraddistingue una delle compagnie più innovative e premiate del panorama teatrale contemporaneo: Babilonia Teatri. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani portano in scena all’Elfo Puccini di Milano Jesus, nel cui titolo risiedono il motore e lo scopo dello spettacolo. Si tratta di un argomento velato, sotteso nel ritmo dei loro precedenti spettacoli e che ora necessitava un confronto diretto. Perché non farne la storia di un nuovo spettacolo? Perché non affrontarlo? Queste sono le parole di Valeria: «Jesus è un punto di domanda. Spesso sopito. Assente. Respinto o ignorato. Capita che torni a bussare. Ci si pari davanti. Improvviso. E sbarri la strada».

L’attrice compare davanti agli spettatori illuminata da un occhio di bue, indossa una giacca scintillante, tacchi trasgressivi e jeans da vera rock star. Le avvolgenti, seducenti e ininterrotte parole di Valeria invitano lo spettatore a danzare con lei a suon di flamenco, mostrandoci come Gesù sia calato nella nostra realtà più di quanto pensiamo. Ne siamo immersi.(…)

Sembra un ritornello rap, un pezzo rock, uno slogan pubblicitario, un avviso ripetuto in stazione e poco a poco ci si rende conto con quanta leggerezza si parla oggi di un argomento “leggero” nel senso di immateriale, celeste, spirituale. Quel Dio che Nietzsche dichiarava morto, l’uomo lo riporta in vita, ma viene mercificato, servito e consumato. Emblematica è la scena dell’agnello, quel Dio morto, legato a una fune che viene letteralmente cucinato e dato a noi in pasto seguendo rigidamente i dettami di una ricetta all’apparenza gustosa, ma che rivela in modo macabro la nostra cecità. Non ci accorgiamo del valore di un essere umano ferito che ci chiede aiuto, di un Gesù che sanguina sul ciglio del marciapiede, non ci importa degli uomini e delle donne morte nel mare, di tutti coloro che hanno fame, sete che nudi chiedono un vestito. Se davvero Gesù è dappertutto, allora è, o era, anche in loro.

Le parole di Valeria dicono verità scomode, perché non abbiamo voglia di aprire gli occhi; allora meglio lasciarlo là quel Gesù: (…)

Le sue parole sono una denuncia, un monito incessante, ma anche un invito a farsi carico, finalmente, della propria responsabilità, a non nascondersi. Così dice Martin Buber al lettore: «Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori». Allo stesso modo Valeria Raimondi ci dice dove trovare le risposte alle nostre domande; lo fa con tenerezza, quasi prendendoci per mano come prende le mani di suo figlio Ettore, di tre anni, teso in volto perché scopre nel suo animo di bambino che dovrà morire. L’attrice ci conduce in quelle che definisce le “chiese di pietra”, indossa un abito bianco, da prima comunione, cala un buio tranquillo in sala, come quando da piccoli recitavamo le preghiere che al catechismo ci insegnavano, prima di addormentarci, al chiaro di luna:

(…)

Le sue parole sono un’autentica testimonianza di un mondo che non si perde, che rinasce nei rapporti più intimi, nell’amore che lega un padre e una madre, nei corpi di un uomo e una donna che, nella scena finale, simbolicamente ricordano quelli di Adamo ed Eva, nudi, senza veli, puri, che si baciano e stringono in un abbraccio e nel seme di quello che verrà dopo di loro, nel figlio che, come loro, non smetterà di interrogare se stesso. Così sfuma questo bellissimo spettacolo nelle note sussurrate di Jeff Buckley, Halleluja.

Tornando a casa non ho potuto fare a meno di rendermi conto che davvero Gesù è dappertutto, si era persino infilato in una mia scarpa. Per sapere come sia stato possibile, dovete andare a vedere lo spettacolo.

Dal Cantico dei Cantici a Personal Jesus dei Depeche Mode il passo non è né breve né scontato. Né lo è portare in scena il personaggio di Gesù o ciò che esso rappresenta. A più riprese, e in forme molto differenti, che siano considerate più o meno sacrileghe, l’arte ci ha provato, il teatro in testa, da Romeo Castellucci a Jan Fabre.
Ora è il turno dei Babilonia Teatri, gruppo veneto attivo dal 2006 che in più occasioni ha lavorato su argomenti delicati, e per alcuni versi ancora tabù, quali la malattia e la morte. Con Jesus (già presentato a Vie Festival di Modena nel 2014 e al 67° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza) il tema diventa il confronto con la religione, in una rilettura pop della sacralità e del senso religioso nella loro veste attuale, anche negli aspetti più materiali e commerciali.

La performance è un’escalation emotiva: il pubblico è bombardato, prima solo verbalmente, tramite il flusso ininterrotto di parole che da tempo caratterizza la compagnia veneta. Poi l’attacco diventa anche fisico: un cannone manovrato da Enrico Castellani, questa volta non protagonista in scena, sputa santini di Gesù che ricadono sulla testa degli spettatori in una sorta di beffarda e gratuita benedizione urbi et orbi.
Castellani e Raimondi scelgono quindi di affrontare la religione ricostruendo prima l’invasione del sacro nelle nostre vite quotidiane, basti pensare allo scrittore più in voga del momento, Papa Francesco, i cui libri vanno a ruba persino in autogrill.

La partenza è buona e accattivante. La svolta, per i Babilonia (e per lo spettacolo), è la preghiera a un Gesù ‘personale’, che ciascuno può decidere di invocare, pregare, servire e amare nel modo che più sente autentico e congeniale: una religione che non ha più dogmi sociali imposti, ma diventa modus vivendi autonomo. Lo stimolo sono le parole del figlio Ettore: è per lui, sembrano dirci Castellani e Raimondi, che ancora crediamo e abbiamo bisogno di un Dio.
Una riflessione intima, personale, sincera. (…) Uno spettacolo che ha il pregio di affrontare con coraggio e profondità questioni e domande universali, troppo spesso trascurate dal nostro teatro.

Lo spettacolo di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco – realizzato dalla Babilonia Teatri, al Puccini Elfo fino al 10 maggio – non lascia indifferenti. Però, probabilmente, non scandalizza nemmeno più di tanto gli eventuali credenti in sala, ammesso che ve ne siano o,  come dice il Papa, non siano piuttosto i soliti fedeli ipocriti.

Inutile negarlo, il brand Jesus ha un successo assoluto, interplanetario, inafferrabile e incontrollabile. Il monologo ha diversi registri interpretativi, che variano di intensità e violenza. All’inizio, prevale la confessione di una donna smarrita, soffocata dalla proterva invasività dell’immagine di Jesus, che è logo, simbolo, metafora onnipresente. Ciò emerge bene, quando la protagonista – Valeria Raimondi, in realtà davvero brava e convincente – a un certo punto inizia a esprimersi in dialetto veneto: lu è qua a parlar con ti!

Trovate d’effetto, irriverenti, giocose, ma non offensive (come le cannonate di immaginette sul pubblico mentre in sottofondo passa la musichetta dei cartoni animati di Topolino) si alternano a pezzi più angosciosi, come le domande del bambino di tre anni alla madre su Gesù e, più in generale, sulla morte, sulla vita e sul suo senso.

Più corrosivo e potente il pezzo in cui Gesù, agnello sacrificale, che incombe in realtà sulla scena, appeso a un cappio, diventa una ricetta da Master Chef . Qui, forse, possiamo parlare di invettiva. Si apprezza il crescendo della dissacrazione che comincia in sordina: si va dall’ironia, al sarcasmo, al dileggio. Mentre i personaggi che si cibano dell’agnello Gesù (presumibilmente uomini di Chiesa) si trasformano in modo repellente, maschere, caricature, immagini grottesche, sempre più deformate, infine mostruose, in un crescendo sulfureo di grande forza emotiva.

(…) Questa disseminazione dell’icona di Gesù, che potremmo chiamare anche “sovraesposizione”, porta la protagonista a chiedere un proprio “personal Jesus”, un Gesù prêt à porter, imbalsamato, che non sia troppo invasivo e che rispetti la privacy di ognuno. Un Gesù depotenziato, ridotto a brand, da esibire all’occorrenza. Niente più. Su questo tema Papa Francesco non perde occasione per intervenire.

La piéce si conclude con un richiamo alla spiritualità che è in ognuno di noi, anche se spesso la rifiutiamo. Dall’alto cala una veste bianca che la protagonista indossa, mentre si inginocchia in una preghiera laica: “Credo nelle chiese di pietra”, dove ogni uomo è libero di trovare il suo centro. La chiesa di pietra ci ricorda con Montale che l’aspirazione mai raggiunta da ognuno di noi è quella di essere “scabro ed essenziale”. Impresa che ai nostri tempi ormai sembra quasi impossibile!

Insomma, un lavoro pieno di spunti interessanti e stimolanti per tutti, credenti o no. Un’opportunità per riflettere sul nostro modo di intendere e vivere il messaggio religioso.

Non è un caso se Jesus, di Valeria Raimondi, Enrico Castellani e Vincenzo Todesco, è stato scelto da Emma Dante, per il 67° Ciclo di Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza. Difatti Jesus è un monologo potente sullo stile del mondo concettuale della regista siciliana. Jesus è uno spettacolo sulla figura di Gesù, a partire dalla sua storia, dalle sue parole, dalle sue azioni, dai Vangeli. Un viaggio attraverso l’origine della nostra religione per comprendere da dove nasca il nostro bisogno di credere. Uno spettacolo che vuole fare i conti con un pensiero che ci è stato tramandato attraverso i secoli e che nel tempo è mutato, si è alterato e spesso è giunto a negare se stesso. Il tentativo degli autori è chiaro: vogliono analizzare l’origine per confrontarsi con l’inquietudine congenita in ognuno di noi, col nostro bisogno di dare un ordine alla confusione, tentando di trovare delle risposte. Ci si chiede che ruolo abbia la religione nella nostra vita. Credere è una possibilità per trovare una vicinanza al sacro o è la sua negazione? È un sentiero per entrare in contatto col divino o risponde alla nostra necessità di conoscere quale sia il ruolo dell’individuo nel mondo? Jesus propone al pubblico una serie di interrogativi e lo fa con un registro recitativo concitato, pressante, dove l’amplificazione è a mille, ma l’effetto è chiaramente voluto. Il volume è esageratamente alto, perché le domande poste, possano rimbombare nell’anima di ciascuno e accendere delle riflessioni. La pretesa non è quella di trovare delle risposte immediate, non si tratta di uno spettacolo a favore o contro la religione. Il fine è quello di lanciare delle riflessioni, senza imporre nulla. Si tratta di domande a risposta aperta, di uno spettacolo che risposta non dà. Il monologo rimarrà in cartellone al Teatro Elfo Puccini fino al 10 maggio.

In scena dal 5 al 10 maggio al teatro Eflo Puccini, Jesus di Baibilonia Teatri: un monologo in cui Valeria Raimondi, vera mattatrice della scena, dialoga col pubblico e con un agnello. Dialogo a senso unico, ma che apre infinite vie alla riflessione.

Come dichiarano loro stessi, quelli di Babilonia Teatri non vogliono raccontare storie, il loro non è certo teatro di narrazione, ma di azione o meglio, di azione a riflettere. L’hanno fatto prima con Pinocchio e poi con Lolita, e ora toccava a lui, la figura più inflazionata e pop di tutti i tempi, Gesù, scelto però nell’accezione ispanica o inglese, come preferite: l’importante è che sia scritto Jesus, che è più universale e ci porta subito a collegare che questo è anche il nome del fidanzato di Madonna, di una marca di jeans, di una serie televisiva.
Babilona Teatri, attraverso la protagonista assoluta Valeria Raimondi – vera mattatrice della scena -, porta in scena ancora una volta un’icona popolare per farci riflettere su tematiche che sembrano logore solo quando affrontate in maniera scontata, convenzionale: consumismo, bisogno di stabilità, la paura del caos e del nulla, i grandi quesiti della vita. Non è possibile raccontare uno spettacolo come Jesus, è un turbinio, un flusso di suggestioni attraverso immagini iper-concrete: l’agnello appeso che scende verso il centro del palco su un letto di patate, a rappresentare il simbolo di Gesù, colui che a sua volta ha rappresentato l’agnello di Dio; la pioggia di santini raffiguranti Cristo, che ci ricordano quanto la sua immagine sia ipertroficamente e invadentemente ovunque: sui social, nei tatuaggi, sulle cover dei cellulari, nei gioielli di ultima moda, sui muri delle scuole… Ma se l’uomo ha così bisogno di trovare il senso, trovare ordine, aiutarsi tramite la spiritualità, può davvero questa eccessiva presenza di Cristo aiutarlo? La fede, la spiritualità, di qualunque colore e forma esse siano, non dovrebbero essere meno urlate, caotiche, ansiogene, pubblicizzate?
E allora ecco che nel finale l’immagine di Adamo ed Eva che si baciano nella semioscurità ci ricorda che solo l’amore, la sfera privata, contano più di qualsiasi altra cosa, danno senso a qualsiasi altra cosa. «Paradiso per tutti» è il motto finale di Valeria e soprattutto la strenua volontà di affermare e validare un solo comandamento: «più privacy per tutti!».

E’ un elastico continuamente teso e rilasciato, questo “Jesus” dei Babilonia Teatri – un biglietto di andata e ritorno fra pop e popolaresco, in cui i lustrini di una Chiesa-show business si mescolano all’autenticità di una pietà popolare, che sa invece di piccole cose ancora raccontate in dialetto. E si affretta a rivendicarlo “anca lü, Jesus”, per bocca di Valeria Raimondi, qui one woman show: “Mi son un omo… son mjha la Giesa!”. Nel frammezzo i modi espressivi della liturgia – dalle giaculatorie alla parafrasi scritturale fino alla reinvenzione del ‘credo’ in un Dio sempre più umano e “nelle chiese di pietra, nei loro silenzi, nella loro pace […] dove il giorno resta fuori e ognuno è libero di pregare, di piangere e porgere l’altra guancia”. Tutto questo per sciorinare un’invettiva fin troppo scontata, però, e incapace di affondare davvero il colpo – al di là di certe trovate pur argute e a tratti godibili. Un susseguirsi di miti pop: così quel Jesus che è ‘dappertutto’, come insegna il catechismo – “In Cielo, in terra e in ogni dove…” -, lo si sciorina davvero qual icona onnipresente – dalla marca di jeans a immaginetta-gaget riscontrabile ovunque, Papa Francesco docet, perfino sui social e nei tweet. A contraltare il nostalgico ed edulcorato ricordo dell’arrosto domenicale – agnello, non a caso: al forno e con le patate -, ma poi tutto si amplifica. “Come lo faresti tu, ma più in grande…” – viene in mente la réclame di un noto ragù.

Ecco queste, in sintesi, le suggestioni di uno spettacolo che non manca di intuizioni felici e di momenti di toccante poesia. Sono l’incalzante interrogatorio del piccolo Ettore di fronte alla scoperta della morte – poco sa opporre, quella madre atea, alle sue lacrime, se non che: “Non è adesso. Adesso possiamo anche non pensarci. Sarà fra tantissimo tempo. Possiamo non pensarci […] almeno finché il sole è alto e illumina le cose” – e il già ricordato credo “nelle chiese di pietra” e “in una vecchia piegata sulle ginocchia, nella sua fede […] nella sua paura, [….] nella sua candela […] contributo alla luce”.

(…) Quel che si persegue è certo lo stigma di una Chiesa, che ha superato se stessa nel diventare quel luogo di mercimonio e perversione, che l’uomo Jesus aveva scacciato dal tempio.

All’Elfo Puccini arriva una babilonia di parole, immagini, espressioni, gesti, intorno alla figura di Gesù. Parole tratte dal linguaggio globale a cui tutti ormai siamo abituati. Espressioni figlie di una massificazione della parola che ridotta all’osso conta sempre meno. Tutto all’interno di una scatola pop, rock, punk, ben congeniata. Secondo gli obiettivi della compagnia ampiamente dichiarati. La compagnia pluripremiata (Premio Ubu 2011 novità italiana/ricerca drammaturgica- nomination Premio Ubu 2011 spettacolo dell’anno; Premio Hystrio alla Drammaturgia 2012 ; The Rerum Natura – progetto speciale da The end, 2012; Premio Enriquez Sirolo 2012 nella categoria Nuovi linguaggi di impegno sociale e civile, sezione Teatro di ricerca; Premio ANCT con Pinocchio, 2012) si confronta con la figura più narrata, ascoltata, pregata… dell’universo e lo fa con il suo particolare linguaggio asciutto, crudo, con il suo teatro nudo. Un teatro in cui non si raccontano storie ma immagini, sequenze, flash. Secondo uno schema dissacrante, simbolico e riluttante. Il procedimento creativo è quello dell’avanguardia: antifrastico, per estrema sintesi e spostamenti laterali che vogliono stupire. Babilonia Teatri, dopo anni di ricerca e sperimentazioni, si muove nel solco di una tradizione del suo stesso rappresentare. I canoni sono quelli di The End gli interrogativi sul significato della morte e della religione esplicitano la visione della regia che si accosta a fenomeni noti senza snobismi, senza pretese di superiorità culturali. Valeria Raimondi incanta sempre con la sua capacità di catturare l’attenzione del pubblico, con la sua gestualità rude e un po’ malinconica, con i suoi silenzi e i suoi sguardi attoniti. E tuttavia il teatro pone comunque delle domande anche se non sempre trova delle risposte. (…) In questa nostra società dello spettacolo globalizzato, il teatro è diventato l’unico luogo di resistenza critica, l’idea e la pratica della diversità più vera, profonda, umana, il luogo degli artigiani, del meccano (per dirlo con le parole di Luigi Allegri).

La scena si apre con le lettere a specchio che compongono la parola Jesus, così come le scriverebbe un bambino. Il testo parte proprio dalle domande di Ettore, ai suoi genitori, domande che tutti i bambini pongono sulla morte. Domande che rappresentano la vera ricchezza dello spettacolo la parte più emotivamente significativa, perché i bambini non hanno censure, perché i bambini sono già futuro sono corpo. Mio figlio quando era piccolo si interrogava spesso sul significato della morte: “Quando si muore tutti dicono che si va in cielo e va bene …ma si va con la pelle o senza pelle?”

Jesus è il titolo che Enrico Castellani e Valeria Raimondi, Babilonia Teatri, hanno scelto per la loro ultima riflessione su Gesù e il cristianesimo: un prodotto di ricerche, frasi, usi e ideologie della comunità italiana (e non) da scagliare al pubblico come nella cifra della coppia veronese.

Nella versione finale, portata in scena giusto dopo poco Pasqua alla Città del Teatro di Cascina, Jesus ritorna indietro di due spettacoli per l’estetica e la struttura.

I tre convalescenti dal coma, interpreti di Pinocchio, e la giovanissima Olga Bercini, attrice di Lolita, sembrano una breve parentesi, un diversivo per ricominciare da un discorso lasciato in sospeso. Valeria Raimondi è di nuovo sola in scena, come nell’ormai lontano 2011, quando i Babilonia attraversavano i teatri d’Italia per portare in scena il loro The End.

Ancora, al centro dello spettacolo ci sono la speculazione e la mercificazione di un morto; solo che questa volta non si tratta di una salma simbolica, è il corpo che mastichiamo da secoli, sorseggiandone il sangue durante la comunione. È Cristo, colui che accompagna il credente occidentale in ogni luogo, è l’uomo di cui abbiamo sempre sentito parlare – jesus è l’uomo più famoso del mondo, jesus lo conoscono tutti, jesus è di tutti – dice la prima parte del testo.

Come nel loro stile, i Babilonia teatri riportano lo spettacolo alle antiche origini, e parlano alla comunità con la loro abituale schiettezza; allontanandosi dalla forma elitaria in cui molto spesso si argina certo tipo di teatro. Jesus, come The end, tocca un tema delicato, soprattutto perché sfiora (e in certi casi disintegra) la sensibilità, il credo, e il vissuto personale del singolo.

Alle spalle della Raimondi l’enorme scritta Jesus ricoperta di lucine colorate in stile cabaret; sopra la testa di Valeria un agnello: simbolo di quell’agnello di Dio crocifisso in croce; che un po’, diciamocelo, ricorda il crocifisso di The End. È tutto. A ultimare la scenografia ci saranno un chilo di patate o poco più, complete di buccia, che saranno sparse a terra, sotto l’agnello, nella scena finale. La scenografia spoglia è animata da un montaggio di quadri scenici, che paiono fotografie viventi per il gioco di luci e ombre, dove Valeria Raimondi canta e balla come una star da musical sulle note delle canzoni più pop (Nada Malanima, Jesus Christ Superstar, Personal Jesus) dove il nome di Cristo è sempre profano, de-sacralizzato, con l’immagine svuotata da ciò che dovrebbe rappresentare. Tra un canto e una coreografia s’innesta la potenza del testo dei Babilonia attraverso la tipica enunciazione straniata di Valeria, un elenco di contraddizioni sociali, incoerenze, paure, usi e costrizioni inibitorie, introiettate nell’italiano medio, a volte anche non credente, eppure assorbito in quelli schemi abitudinari come la festa di Natale, declassata a rituale borghese, quasi obbligata.

Innegabilmente i Babilonia Teatri esprimono nella loro arte un bisogno sincero di riflettere: in Jesus l’accostamento a The End viene naturale, soprattutto nella seconda parte dello spettacolo, dove ancora riemerge quella domanda sulla morte, fatta proprio da Ettore, il bimbo che tra le braccia di Valeria chiudeva lo spettacolo come testimonianza del ciclo vitale dell’uomo; e che ora si domanda – perché Gesù è morto se non era cattivo? – perché Ettore a soli tre anni ha capito che dovrà morire, che questa è la vita. La domanda costante dei Babilonia sembra essere: perché si deve morire? Una ricerca che non è interrotta (se non esteticamente) dagli spettacoli precedenti: Pinocchio, infatti, usa la famosa favola solo come pre-testo per affrontare il delicato tema del coma e della riabilitazione alla vita. Il coma è una morte scampata, messa all’angolo ad aspettare che il ciclo della vita finisca. E poi Lolita, che affronta il fiorire dell’esistenza: un’adolescente appena all’inizio del ciclo vitale. Allora Jesus per i contenuti non è un ritorno diretto a The End, ma un’altra domanda, da aggiungere alle precedenti per proseguire questo percorso sul senso della vita, che può sembrare un’attesa della morte ineludibile. Si nasce, si cresce, si lotta per la vita, ma poi inevitabilmente si muore. Temi che sembrano costituire tutto il significato del teatro dei Babilonia, anche l’uso ripetuto delle loro tecniche, ruggenti, feroci, e avvolte dolorose, risulta essere un ciclo che si ripete, un circuito chiuso spontaneamente adatto ad esprimere gli schemi serrati della vita umana.

Jesus di Babilonia Teatri è l’urlo disperato per una favola bella cui si vorrebbe credere fino a morire, sperando in una resurrezione. Jesus è un canto dolente e rabbioso, è la sfida di Valeria Raimondi, torero donna che si mette alla prova con l’insfidabile, che danza sul nostro bisogno di Dio, sulla faccia di Gesù, sul suo uso ed abuso, sulla nostra coscienza sporca e voglia di illuderci ancora che un senso ci sia. Jesus dei Babilonia Teatri è un inno laico al Dio che non c’è, alla favola impossibile a cui credere, al bisogno di senso dei bambini come degli adulti, è l’urlo strozzato per un Dio che è morto ma che continuiamo a cercare, è il grido che muore in gola quando l’età dell’infanzia e della magia risulta definitivamente svanita. Valeria canta, enumera il nostro rapporto col Cristo, enumera l’abuso iconografico di Gesù, ci getta in faccia l’uso pornografico e comodo che facciamo di quell’icona, fino a spararci addosso i santini di Gesù che alla fine, uscendo da teatro, si fatica a non calpestarli ed non è una bella sensazione… Eccola Valeria a raccontarci la domanda del figlio sulla tavola imbandita della Vigilia di Natale: perché il bambinello deve ancora nascere e sulla parete della sala è sofferente in croce: perché deve morire? Tutti devono morire? Ma se lui muore, chiede il piccolo, e poi risorge, risorgiamo anche noi? Quegli interrogativi sulla vita, morte e resurrezione dell’uomo, quello con la u minuscola: il nonno e la nonna, il papà e la mamma sono gli interrogativi del piccolo figlio di Valeria ed Enrico ma sono gli interrogativi sulla morte e il senso della vita che sono dell’uomo, o almeno dovrebbero esserlo. Beh, i Babilonia quegli interrogativi ce li sbattono in faccia e fanno male, malissimo. Jesus è il capro legato che si compone in una natura morta fatta di patate e dell’insegna luminosa JESUS di una straziante bellezza. Assistendo al canto verbale di Babilonia Teatri si fatica a respirare, ci si ritrova a tu per tu con il bisogno di Dio, la fame di illusione e la ragione che stringe, impietosa e dice: non è possibile, non è così, niente resurrezioni per favore. Eppure alla fine Valeria in abito bianco illuminato da un neon accecante enuclea il suo ‘credo nelle chiese di pietra’, ovvero in quei luoghi e spazi carichi di bellezza e di intimità in cui forse un contatto con Dio, una possibilità di continuare a credere c’è, a credere che la vita abbia un senso, che ci sia una resurrezione nell’amore. Quel credo nelle chiese di pietra cantato da Valeria si concreta nell’immagine di Enrico e Valeria insieme, nudi, immagine di Adamo ed Eva di Masaccio, immagine di una religione dell’amore che se non dà speranza, per lo meno racconta di un umano compiersi del nostro stare al mondo nella fusione con l’altro, nell’amore che quando è amore incondizionato sa essere divino. Si esce commossi e alla ricerca di uno Jesus possibile che ci aiuti ad accettare la nostra finitezza.

C’è la curiosità di un bambino nella spinta con la quale Babilonia Teatri affronta Jesus, di scena al Teatro Sperimentale di Pesaro, come primo appuntamento della rassegna sui nuovi linguaggi della ricerca TeatrOltre.

E di nuovo linguaggio si tratta sicuramente: i Babilonia, definiti dal giornalista e critico teatrale Stefano Casi, nel libro a loro dedicato, come un gruppo con una personalissima visione del teatro e un approccio pop, in questo Jesus hanno davvero una grande forza comunicativa nel viaggio che li vede indagare sulle “eterne domande”, quelle che un bambino pone con ingenuità e a cui è difficile rispondere a qualsiasi età.

“Si deve morire? Tutti dobbiamo morire? e moriamo come Gesù? Perché si muore mamma?”

Sono questi i quesiti che hanno fornito lo stimolo a Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, per osservare, prima in una visione intima e famigliare, per poi condividere e scoprire ciò che resta, tra spiritualità e mercificazione, sul significato della fede, della vita o della morte.

La loro visione pop lascia molto spazio alla musica, oltre che alla musicalità delle parole che sono scandite in un mix  tra maniacale precisione, ironia e cinismo, dolce enfasi. La musica appunto, arriva potente, tagliente come quelle parole, passando dallo Strauss di “Così parlò Zaratustra” che apre lo spettacolo, alla canzone pop “Gesù” di Nada, fino a “Jesus Christ Superstar”. E la scansione drammaturgica segue parallelamente la trama musicale, per leggere la contemporaneità di Gesù e di ciò che rappresenta oggi la sua iconografia (come mercificazione nel lancio dei numerosissimi santini sul pubblico), la sua storia, il suo sacrificio. Ma accanto alle eterne domande c’è la denuncia verso una società che si è mangiata l’anima (come un agnello sacrificale al centro della scena) e vive di materialismo.

Nessuno può rispondere a quelle domande, come si ha “paura del buio, quando il sole non illumina le cose”, ma possono essere uno stimolo a ridimensionare il nostro modo di guardare il mondo e forse ritornare alle origini e all’amore, come l’immagine finale di due corpi nudi che si abbracciano nella penombra, sulle note della splendida “Hallelujah”, nell’interpretazione di Jeff Buckley.

Un cartellone decisamente interessante quello proposto da SUPERSTART, Progetto Teatro Off del Teatro Stabile del Veneto: sono 10 appuntamenti – tra Padova e Venezia – sui temi del contemporaneo. Ha aperto la rassegna la compagnia Babilonia Teatri con lo spettacolo “JESUS” interpretato da Valeria Raimondi.

Dalla vittoria del Premio Scenario 2007 alla prima edizione del Premio Off nel 2010, i Babilonia Teatri hanno portato avanti un percorso artistico coraggioso, anticonformista e irriverente (hanno indagato molti temi scomodi, dalla morte alla pedofilia, dal razzismo alla disabilità), calcando i più prestigiosi palcoscenici legati al contemporaneo.

Jesus è senz’altro una proposta teatrale d’avanguardia, una proposta che ha – finalmente – della prospettiva. Lo spettacolo si legge su più livelli. C’è la domanda elementare, così banale che è proprio un bambino a porla: perché si muore? Eppure, per quanto banale sia, questa domanda è all’origine di tutte le risposte dogmatiche. Jesus è senz’altro un viaggio nella religione per capire perché si crede. Ma non solo. È anche la spiegazione della violenza, della necessità del capro espiatorio (se si muore sarà pure colpa di qualcuno). È anche la rilettura in chiave post moderna della divinità capitalizzata dalla società simulacro. Appare evidente come la sacra ostensione del bene, che dovrebbe portare coesione sociale, degeneri nell’oscenità totalizzante. Pop. Esilarante e illuminante la scena in cui v’è la simbolica messa a morte del Dio: l’agnello di Dio, appunto. La società dei consumi bonifica il religioso ma non rinuncia al cannibalismo del pasto totemico (questo è il mio corpo prendete e mangiatene tutti). Estetizza quindi il rituale e lo consegna alla società dello spettacolo: ecco a voi Master Chef con candido berretto da cuoco che insegna al pubblico devoto come si scanna l’agnello pasquale e ci rende appetitoso il piatto eucaristico. In scena si susseguono momenti di grande intensità intellettuale e la ricerca concettuale che sottende alla critica profonda – e alla profonda ricerca di verità di questo spettacolo – ci fanno sorvolare su alcune debolezze nell’impianto. Azzeccatissimo invece il linguaggio hard boiled che shifta dal dialettale al glamour, dimostrando così la trasversalità – e l’invincibilità – del pensiero religioso. Un plauso, quindi, a Babilonia Teatri, al loro teatro filosofico, di ricerca sperimentale e al loro coraggio, ideologico e sincero.

Che cosa è lecito o ragionevole aspettarsi da una compagnia giovane ma non giovanissima, conosciuta ma non conosciutissima, apprezzata ma non apprezzatissima? Forse la risposta è: che abbia voglia di imbarcarsi in imprese sempre nuove, al di sopra delle proprie possibilità, per cambiare rotta e non navigare in acque sicure.
A dispetto del tema cristologico (o forse proprio in ossequio ad esso), Babilonia Teatri, ovvero Enrico Castellani e Valeria Raimondi, qui coadiuvati dal drammaturgo e sceneggiatore Vincenzo Todesco, restano invece fedeli a loro stessi, fedeli cioè a un approccio e a un modello di spettacolo ormai più che allenato con i precedenti lavori. Negli ultimi anni Enrico e Valeria hanno costruito spettacoli prendendo a oggetto la morte (o meglio il consumismo funerario, in The end), le ossessioni e le manie italiche (nel pluripremiato Made in Italy), la pedofilia (con il più recente Lolita, del 2013): arrivano quindi ben temprati all’uscio del paradiso, sollecitati, come dichiarano, dalla recente genitorialità, a svolgere un’inchiesta su Gesù, sull’origine della fede cattolica cioè. (…)
Jesus è a tutti gli effetti uno spettacolo di parole, in cui tornano le esilaranti elencazioni, che sembrano costruite usando il completamento automatico dei motori di ricerca (un esempio: «Jesus è il nome del fidanzato di Madonna / Jesus è un paio di jeans / Jesus è una miniserie televisiva / Jesus gioca nell’Inter / Jesus è il migliore amico del grande Lebowski», eccetera). Tornano le tirate aggressive, scalmanate e microfonate, le domande assillanti e le risposte provocatorie, le catene anaforiche, in un flusso verbale ora seducente ora ai limiti della blasfemia. Torna un allestimento scenografico pressoché inesistente, limitato a pochi oggetti (in questo caso un agnello legato per le zampe e calato su uno strato di patate, piatto forte dell’ultima cena). E torna la musica, come colonna sonora didascalica che riempie i vuoti tra i movimenti: in questo caso si ascolta l’invettiva di Nada dal titolo Gesù, la robusta Personal Jesus firmata Marylin Manson e da ultimo la voce suadente di Jeff Buckley in Hallelujah.

VICENZA – In una fase in cui la Rete, l’under 25 di fascia geografica cristiano-centrica, si appassiona a certe vignette sul Cristo e la cristologia fino a farne un cult apocrifo- Toc toc, chi è? Dio. La mamma mi ha detto di non aprire a cani e porci- oppure si spalma su Ipad, effe book, Iphone, video su you tube di Lady Gaga coi crocioni al petto, improbabilissime icone Harley Davidson per la new poor italian generation, collanine del rosario alla moda dei maschi greci isolani e simbologie sadomaso cadaveriche (ma non lo faceva anche Madonna, la cantante, a suo tempo e con altri più rozzi mezzi mediatici?), e che dire a commento della moda dilagante delle disco-cristoteche (che sempre al tecno house siamo da vent’anni); e allora, che fare? Certo, mettere al mondo e poi far crescere ed educare- oggi- un bambino nella confusione dei simboli-archetipi multimediali, non è affatto come bere o affogare dentro una tazza di tè, per dirla alla Mannarino? Altro che Lipton o Twining delle madri o nonne mediamente borghesi. Che così incomincia l’affabulazione in salsa rapper a due- la coppia genitoriale di questo Jesus dei Babilonia Teatri, nella cornice di quell’architetto che fu Palladio, dentro una location teatrale unica al mondo: il Teatro Olimpico di Vicenza: per la microstagione vicentina a direzione artistica di Emma Dante e dopo la prima modenese .

E’ Jesus : in scena irrompe l’energia a tutto tondo di un bambinetto età dell’asilo, Ettore, anche figlio della coppia in scena, Valeria Raimondi e Enrico Castellani in jeans e magliette con stampigliato sopra il logo 33 (che a quell’età, pare-sia morto Gesù). La coppia genitoriale affronta in un monologante doppio il tema, con in braccio un imbarazzante pallone-pancione da basket – a volte in palleggio: Gesù chi è costui? E giù tutta una serie di slogan sulla iconografia-iconoclastia a partire dalla pubblicità invasiva ed invadente di questo ingombrantissimo Figlio dell’occidente cristiano, ma alla maniera del duo performers Raimondi /Castellani a cui i Babilonia ci ha abituati – in doppio cantilenato. Certo da Chi mi ama mi segua della pubblicità (targata Oliviero Toscani) sui cartelloni di certi jeans primissimi anni Settanta, ne ha fatta di strada il brand del “crocifisso”. Parte una micro sezione -a cui ne seguiranno altre- di testualità dove è tutto un incrociarsi di meta-narrazioni sulla cristità. Il plot narrativo si snoda alternato a pezzi musicali pop, dal Vasco Rossi al Personal Jesus dei Depeche mode, mentre il bambino chiede (si chiede?): “Papà mamma perché Cristo muore? Perché si nasce e poi si muore? Magari ammazzati come Gesù?” (…) Questo nuovo lavoro di Babilonia sembra voler rimandare ai temi di Vita versus Morte (ma anche eros-thanatos visti in Lolita) di cui ci siamo appassionati – quasi un rilancio in chiave post regressiva del Pinocchio (dove il tema era quello del coma e della sopravvivenza alla tragedia dell’incidente stradale che avrebbe potuto essere mortale ma che invece trasferisce ad un’altra dimensione pur sempre vitale, anche nelle sue limitazioni fisiche s/oggettive) e può far pensare ad un inno naturalistico alla prevalenza della corporeità e ad un darwinistico principio di élan vital o dell’equivalente del classicissimo amor vitae.

Chissà, forse la risposta genitoriale alla domanda del loro figlio che il loro Bambin Gesù, si trasforma in risposta esistenziale della coppia: non vogliamo un Cristo martirizzato ma un personal Jesus, un Paradiso in terra. Uno spazio dopo la cacciata di Adamo ed Eva ma hic et nunc, materiale, dove il corpo può avere dimensione di splendore e luce come la vita e la sua trasmissione attraverso la copula-insomma, il dionisiaco e/ma senza peccato originale?

Con Jesus – visto nel meraviglioso Teatro Olimpico di Vicenza il 25 ottobre poco dopo il debutto a Vie Festival – Babilonia Teatri incontra la storia più famosa e più pop di tutte. Per lo meno da noi. Quella di Gesù raccontata nei Vangeli. Per raccontarla a loro volta i Babilonia si affidano alla struttura drammaturgica e alla lingua che ha caratterizzato i loro primi lavori e che si presta a mappare l’immaginario collettivo ovvero la compagine di immagini generalizzate e semplificate con le quali, più o meno superficialmente, abbiamo impattato tutti.

Apparentemente meno graffianti del solito i Babilonia imbastiscono anche in questo caso una serie di quadri che, attraverso l’enunciazione serrata di testi-immagine, servono per portare al tema della morte, croce e delizia della loro poetica. Ma la morte, si sa, è anche quella parola-problema che – come suggeriscono le teorie sull’immaginario da Jung, Bachelard, Durand, Le Goff, Morin – motiva il bisogno di sacro che si manifesta ovunque, anche nella società-mondo occidentale, e richiede di essere metabolizzata ed esorcizzata con l’ausilio delle pratiche simboliche. Pratiche che peraltro ci riguardano come consumatori di storie, a volte stereotipate, popolari, superficiali ma che pure permettono di elaborare l’esperienza, di mettere ordine nel disordine delle nostre paure.

Il primo testo incalza in maniera meta-teatrale parlando della costruzione dello spettacolo e di come l’idea di dedicare uno spettacolo proprio a Gesù abbia portato in superficie qualcosa che c’era ma non si vedeva. Uno sfondo da cui a un certo punto sono emerse la figura di Gesù e della religione cattolica per poi propagarsi tutt’intorno, in ogni cosa: nella televisione, nelle edicole, nelle immagini e nei discorsi del papa… Gesù è quello della stampa ovale di un cristo con l’aureola che finirà nel bagno di casa di Castellani e Raimondi, la statuina del presepio, la versione italiana di Jesus Christ Superstar con Ted Neeley, Shel Shapiro e Pau dei Negrita.

Una diffusione così capillare di immagini e rappresentazioni che non può essere ridotta, che non può aiutare alla messa a punto di uno spettacolo dedicato a Gesù tanto da tentare i Babilonia ad abbandonare l’impresa.

Poi l’epifania, la rivelazione, la chiave per appropriarsi del tema e trattarlo teatralmente: il figlio Ettore chiede, mentre fa il presepio insieme ai genitori, che legame esista fra la statuina di Gesù bambino e l’immagine di quello adulto che morirà sulla croce. Ettore scopre così la morte degli altri e anche la sua mentre, allo stesso tempo, Raimondi e Castellani trovano un innesco per impostare il lavoro.

Prima di tutto la dimensione biografica che porta alle estreme conseguenze quella tensione verso la verità della scena che abbiamo visto negli altri spettacoli, non ultimo naturalmente il Pinocchio con i tre protagonisti provenienti dalla Casa di Risvegli di Bologna.

Affrontare la morte vuole dire anche affrontare la vita, le sue grandi domande e il semplice quotidiano nel quale a volte si può anche trovare conforto. Magari nel corpo delle persone amate. E allora nella penombra della scena Enrico e Valeria si spogliano e si abbracciano perché in questa messa a nudo c’è la nuda vita, l’essere vita e il dare la vita che si oppongono alla non-vita. In questo modo non solo la morte, come tema della comunicazione sociale, non viene rimosso né, mi pare, affrontato con una acritica professione di fede alla religione cattolica, ma viene trattata alla maniera di Babilonia.

Per motivi tecnici al Teatro Olimpico non abbiamo visto l’ultima scena dello spettacolo che Castellani e Raimondi – le loro voci registrate – hanno descritto: il figlio Ettore, così come succedeva sul finale di Pinocchio, viene imbragato, sollevato da terra e fatto volare felice.

Un gesto di speranza, fra i tanti possibili, che di questi tempi (a me) male non fa.

(…) “Jesus”, una storia familiare

I Babilonia sono un tipico esempio di “hand made theatre”, di un teatro fatto in casa, intimo, scritto, diretto e interpretato da Enrico Castellani e Valeria Raimondi unitamente alla presenza, pressoché costante, di Vincenzo Todesco. Questa la loro specificità e, secondo noi, il loro punto di forza. Ciò detto, l’arrivo in famiglia del primogenito Ettore (3 anni) e del secondo figlio (di appena pochi mesi) non poteva non entrare di prepotenza anche nei loro spettacoli. E infatti “Jesus” nasce proprio da qui, e cioè dall’insorgere “di domande ormai sopite”, come ci ha raccontato Castellani nell’intervista, “alle quali avevamo dato delle risposte, ma che si sono riproposte con urgenza” incarnate nella voce ingenua e innocente di un bambino che chiede conto ai proprio genitori del mondo che lo circonda. Ma quali sono esattamente queste domande? Partendo da: “Perché si muore mamma? Perché si vive mamma?” e passando per “Perché Gesù è stato crocifisso?”, immagine di una crudeltà indecifrabile per un bambino; si arriva fino a “Se allora tutti dobbiamo morire, che senso ha vivere?”. Per dare risposta a questi ed altri quesiti, i Babilonia compiono un viaggio attraverso la figura di Cristo e la sua onnipresenza, la sua mercificazione, la sua spettacolarizzazione e poco importa se dal disgusto iniziale l’approdo ad una spiritualità primitiva può apparire un po’ buonista, come alcuni critici hanno notato, per noi conta l’onestà con cui è raccontato questo viaggio e la perizia con cui è confezionato lo spettacolo. Un’onestà umana e artistica che traspare con evidenza anche nella nostra videointervista. In altre parole, questi sono i Babilonia, prendere o lasciare.

L’impressione è che Jesus – ultima creazione di Babilonia Teatri – non sia uno spettacolo su Gesù ma su una sua mancanza privata, intima, personale; che sia una sorta di paradossale invocazione dell’assente, una chiamata disperata all’invisibile, un tentativo di strappare un segno o una parola di conferma a Colui che osserva in silenzio, impassibile, incurante: ammesso che esista.

A confermare tale suggestione basta la forma verbale dello spettacolo, costituito da una serie di monologhi detti a due voci e intervallati, l’uno dall’altro, da campionature musicali: monologhi che sembrano dialoghi, dunque, ma che restano monologhi e che – perciò – sono riflessioni, preghiere, constatazioni condivisibili e condivise ma comunque individuali, solitarie, singolari.

La mercificazione oppressiva e ridicola della fede, tramutata in un cumulo di ciarpame eucaristico dall’odore fasullo d’incenso; la spiegazione del senso della morte data a un figlio, le cui domande (“Ma tutti i bambini nascono e dopo che sono nati diventano grandi e dopo muoiono?”) costringono a interrogarsi come mai fatto prima; la richiesta esplicita di una Chiesa disinteressata alle voglie e ai gusti sessuali di uomini e donne, non punibili per il loro desiderio di piacere; il sentimento di rispetto e di sincero intimismo contemplativo per la religione dei piccoli gesti, dei luoghi periferici, delle chiesette minuscole, spoglie, ombratili. Brani che vengono detti a mezzopalco, a luci calde, spesso a voce nuda e che rimbombano nel pieno vuoto dell’Olimpico di Vicenza: esso stesso museale chiesa del teatro, scenografia suggestiva dall’eleganza purissima, bianca, laicamente ecclesiastica.

Giungono – agli spettatori – questi frammenti che descrivono una religiosità dubbia, a tratti disgustata, infastidita, quasi impossibile ma che del tutto impossibile non è ancora; giungono queste urgenze vocali che raccontano di una repulsione per l’evidenza spettacolare data al personalismo cristiano (Dio, Gesù, Papa Francesco, i Magi e la Madonna, la Maddalena, i Martiri, San Pio, San Giovanni Paolo II: tutti tramutati in santini, quadretti, medaglie, statuine e monete, francobolli, decorazioni di piatti o bicchieri; tutti resi meta apparente di un viaggio commerciale; tutti campeggianti nelle edicole, come prossima uscita settimanale); giungono queste arrabbiature dolenti, questi pensieri confusi, questi sinceri desideri di raccoglimento e di pace da due figure che – pasolinianamente – non possono non dirsi cattoliche (“Le sue frasi mi hanno accompagnato, cresciuto, plasmato”) per quanto possano o vogliano o preferiscano pensarsi atee.

Giungono al pubblico queste frasi dette a piena voce, col tono di chi parla a qualcuno che è troppo distante, e raccontano di una crisi mistica contemporanea, vissuta tra onnipresenza del marchio, dissapore per l’ottusità antimoderna dei divieti e attrazione spirituale per un’idea di religiosità raccolta ma non penitente, silenziosa ma non punitiva, accogliente ma non oppressiva.

Jesus è ovunque (“Jesus è il nome del fidanzato di Madonna, Jesus è un paio di jeans, Jesus è una miniserie televisiva, Jesus gioca nell’Inter”) e in nome di Jesus si declina il peccato (“Quante volte la mano è scesa al pube, quante volte si è infilata dove non doveva, quante volte ho consumato fuori dal matrimonio, prima del matrimonio, nonostante il matrimonio”) ma – Jesus e il suo nome – sono anche la ragione d’interrogativi che tormentano, giacché non sono previste risposte e – Jesus e il suo nome – sono motivo dell’Arte, tema di creazione, fondamento e prima pietra di lisci edifici semplicissimi nei quali è ancora possibile il pellegrinaggio verso i propri pensieri più segreti.

Contraddittorietà drammaturgica per descrivere una contraddittorietà sociale e individuale, dunque, per cui possiamo non credere pur essendo attratti dalla fede o possiamo avere fede pur essendo stanchi di credere.

Lo spettacolo di Babilonia Teatri andato in scena all’Olimpico di Vicenza è un’indagine insolita sulla figura di Gesù, che trae lo spunto dalle domande sulla vita e la morte di un figlio ai genitori. Ettore, tre anni, corre sul palco, felice, come in un luogo a lui familiare. Perché sui palcoscenici è cresciuto, in naturalezza, seguendo mamma e papà. Ha imparato cos’è la vita e ha chiesto cos’è la morte. E loro gliel’hanno raccontato attraverso le storie, fino alla storia per eccellenza, quella più celebre.
Applausi a più riprese per Jesus al Teatro Olimpico di Vicenza. Lo spettacolo, della compagnia veronese Babilonia Teatri, ultimo del 67° Ciclo di spettacoli classici all’Olimpico è stato un mix di sacralità, carnalità e irriverenza, sicuramente di forte introspezione interiore. Perché proprio Gesù? Lo spiegano Enrico Castellani e Valeria Raimondi (attori protagonisti, ma anche autori assieme a Vincenzo Todesco), in una sorta di prologo allo spettacolo. Gesù è “un personaggio così familiare da conoscerne nascita e morte”. Per questo è stato uno spettacolo difficile, non bisognava cadere nel già visto, nella banalità, stante il bombardamento di messaggi sul Nazareno e dintorni, oggi come ieri.
“Ovunque mi giravo, trovavo Gesù – proclamano Castellani Raimondi, in un duetto sagace. Santini, croci, affreschi; accendevo la radio, un’unica frequenza: Radio Maria. Perfino il fidanzato di Madonna si chiama Jesus. All’autogrill mi sembrava di essere in Vaticano. Insomma, quasi sentivo una leggera psoriasi sulle mani”. Così tanti stimoli che “cresceva il nostro senso di inadeguatezza. Se si spegneva il pc mentre scrivevamo, pensavamo fossero segni divini. Poi abbiamo capito. Gesù ci è apparso: sono un uomo”.
Ecco la chiave di lettura dello spettacolo, che nasce dalle domande del piccolo Ettore: “Mamma, papà, ma tutti devono morire?”. “Sì tutti”. “Ma anche il nonno?” “Sì”. “E mio cugino?”. “Sì”. “E anche tu, papà?” “Sì”. Davanti a quell’incalzare, “vorrei poter spiegare, ma non so pregare, però so piangere”. “Si tratta – spiega Castellani – di una riflessione sul bisogno di spiritualità, che parte dal nostro vissuto, dalla nostra pancia. Le domande, quelle di sempre, che accomunano gli uomini di tutti i tempi, quando si diventa genitori si fanno più insistenti. Abbiamo allora guardato alla vita di Gesù, alle sue opere, alle sue parole, per cercare di capire dove nasce il bisogno di credere”.
La risposta? “È un bisogno presente nell’uomo da sempre, in alcuni momenti è stato accantonato, ma oggi sta tornando, complice probabilmente questo mondo, che va in tutt’altra direzione. Si sente la necessità di riscoprire la dimensione umana, la spiritualità, la conoscenza di sé, che ci permette poi di stare in relazione con gli altri”.

Nel prologo dichiarate che ideare questo spettacolo è stato tutt’altro che facile. “Il rischio di cadere nel già detto, nel banale, c’è sempre. Tanto più con un personaggio come Gesù. A toglierci di impaccio è stato il fatto di portare sul palcoscenico la nostra autenticità”. L’autenticità di una coppia di attori che è coppia anche nella vita. E l’autenticità di chi non è credente, ma, come tutti, è in ricerca. “Il senso della vita, l’angoscia della morte sono questioni profonde, che riguardano tutti. E Gesù, soprattutto per il nostro Paese, non è solo religione, è anche un fatto culturale, da cui non si può prescindere. Abbiamo voluto raccontare senza prese di posizione costituite, senza voler criticare la religione cattolica nei suoi aspetti più dogmatici, con libertà, ma anche con grande onestà intellettuale”.
Interessante la scelta delle musiche, da “Quando cammino su queste dannate nuvole” di Vasco Rossi, all’”Ave Maria” di Andrea Bocelli, fino a un pezzo rock, che scatena i due protagonisti. Poi le parole “molto umane” di Valeria: “Voglio un Dio comprensivo e misericordioso, un Dio che è solo amore e amando sempre, sempre perdona (…). Non voglio un Dio che si erge a giudice universale, un Dio iroso e rabbioso, un Dio guerriero cattivo e imprevedibile, voglio il paradiso, paradiso per tutti”.
“Entriamo all’Olimpico con grande rispetto”: aveva detto Castellani. Ecco allora l’omaggio finale alla grandezza, ma anche alla delicatezza del teatro cinquecentesco: “Dovevamo fare un’ultima scena, ma Palladio ci è apparso in sogno e ce l’ha sconsigliato, così abbiamo deciso di raccontarvela. Immaginate che torni il bambino che ha aperto lo spettacolo, che dall’alto scendano due corde elastiche e vengano fissate alla sua vita. Lui inizia a saltare, sempre più in alto, a volare, a ridere, a irraggiare luce. Vogliamo che vi portiate a casa questa immagine di spensieratezza”.
La luce scema. It’s wonderful di Paolo Conte mette la parola fine. Il pubblico se ne va, portando con sé le rassicurazioni di mamma Valeria al figlioletto: “Tutto si sistemerà, saremo di nuovo tutti insieme un giorno. Per una vita vera. Al di là delle nuvole”.

C’è sempre qualcosa di organico, di pulsante. Un battito che corrisponde sotto diversi spessori di pelle, per non dire degli abiti, delle asprezze, delle convenienze. Si avverte in una sala teatrale attraverso un contatto di immediatezza cui non si può opporre resistenza, è urgente e vivo tanto per chi ne fa rappresentazione, tanto per chi vi assiste. In questa scala tonale della coesistenza si muove il corpo unico di Babilonia Teatri, coppia artistica composta dai veronesi Enrico Castellani e Valeria Raimondi, rapiti per questa ultima creazione – ideata assieme a Vincenzo Todesco e affiancata dalla solita valida presenza di Luca Scotton per la tecnica – dalla figura del Cristo, ridato al mondo sotto il valore di Jesus.

La tematica suggerita dal titolo – spettacolo apprezzato al Teatro Ermanno Fabbri di Vignola per Vie Festival 2014 – non inganni: il punto di riflessione muove da una domanda di dolcezza, potremmo dire, di convivenza tra uomini e natura, incapaci entrambi di rassegnarsi all’assenza di Dio. Eppure, eppure Jesus, Gesù, il Cristo. Quel tramite tra l’umano e il divino cui da incapaci del divenire abbiamo contestato la leggenda, benché intrisa di virtù esemplare. Ma non c’è dottrina nel Cristo di quest’opera. C’è, forse, religione. O almeno il bisogno di raggrumare sentimenti, stati emotivi, attenzioni e preoccupazioni in una forma di dedizione verso la propria specie.

Allo spazio è lasciata ogni via di fuga, povero di elementi si compone unicamente della loro presenza. E di quella di un bambino che corre in circolo, senza apparente finalità. Quel bambino è Ettore Castellani, il figlio della coppia; questo spettacolo si avverte come un tentativo di iniziare un percorso per un passaggio testimoniale: figlio mio, nostro, noi dobbiamo imparare a dirti l’indicibile, l’immensità e la minutezza, troppo facile è insegnarti la consistenza di un filo d’erba o quanto è salata l’acqua del mare, io devo imparare a raccontarti perché l’erba, perché il mare hanno la mia stessa linfa e il mio stesso sale. Non solo consistenza, dunque, ma coesistenza. Sembra questa la missione che si concedono, cui si concedono, i due Babilonia Teatri.

Seguendo una struttura circolare, i frammenti che compongono lo spettacolo fluttuano da una constatazione più evidente, in superficie, di quanto ci sia o meno del Cristo nel nostro vivere quotidiano, giungendo poi a introiettare una maggiore profondità con testi più intimi, capaci di scavare nella loro sensibilità e – per converso – in quella di chi ascolta. Più di tutti è un monologo sul Natale, vero banco di prova per misurarsi con la spiritualità confezionata, in cui le domande del figlio prendono la voce dei genitori; poi è un personale “credo”, dal titolo Chiese di pietra, in dedica a una religiosità interiore, in cui è vivo il richiamo alla purezza, al silenzio, alla devozione dell’uomo verso l’uomo.

Occuparsi della figura del Cristo è oggi popolare anche nei contesti storicamente più refrattari dell’arte, tanto ricca nel suo passato di tradizione quanto povera nel presente figurativo che sembra aver perduto la tensione spirituale. Babilonia Teatri – cui Stefano Casi ha dedicato l’interessante volume Per un teatro pop – La lingua di Babilonia Teatri (Titivillus, 2013) – accetta la difficile sfida di cambiare registro, tentare una tematica già molto viva nei precedenti lavori ma prenderla di fronte, senza arretramenti o deviazioni. Per farlo usa la stessa frontalità formale dei contenuti, ormai tratto distintivo della loro ricerca artistica, e stimola nell’ascolto quel grado di compromissione urgente, cui nessuno potrà sottrarsi. Il corpo dell’opera è ancora da fluidificare, la frammentarietà dovrà trovare replica dopo replica una gestione drammaturgica più netta di scelte non sempre convincenti e a volte poco indagate, ma nella sconfitta dichiarata a inizio spettacolo, quella impossibilità a parlare davvero di Jesus – per paradosso icona e assieme paradigma – si avverte la purezza del pensiero e la solidità dell’impianto, finché le loro voci continueranno a parlare di ciò che opprime l’individuo con il rispetto dell’ascolto e la semplicità dovuta, connotata alla materia stessa.

C’è una musica attorno alla corsa del bambino, è un gioco quello in cui tutto inizia e nello stesso gioco finirà, con una altalena e il Personal Jesus dei Depeche Mode su cui ballano una danza naïf e – anch’essa – personale, come dire che tutto quanto è stato detto non perda mai misura dell’uomo, perché all’uomo ogni progressione di pensiero ritorni.

Dopo essersi occupati, nel loro precedente spettacolo, Lolita, di un tema scabroso come quello della pedofilia, i Babilonia Teatri affrontano in Jesus un’altra materia enorme, delicatissima, difficilissima da inquadrare come quella del rapporto della nostra società con l’icona massima della cultura cristiana. Non è una scelta che mi appassioni, ma è comunque una dimostrazione di grande coraggio, e di notevole fiducia nella propria capacità di superare ogni sorta di problemi e ostacoli. Perché hanno deciso di mettersi alla prova impegnandosi su un tema che sicuramente li espone a contrasti e prese di distanze? Perché, evidentemente, lo ritengono una questione cruciale del nostro tempo, tanto dal punto di vista di chi crede quanto da quello di chi non crede.

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, i due attori-autori cui si è aggiunto per l’occasione un terzo ideatore, il drammaturgo e sceneggiatore Vincenzo Todesco, fedeli a un collaudato stile pop evitano ovviamente qualunque approccio teorico-filosofico, entrando invece intelligentemente nel merito della loro trattazione da una molteplicità di prospettive per così dire collaterali: si va dalle reazioni, dalle indicazioni, dai consigli non richiesti di amici e conoscenti durante la preparazione (con un’invadenza, dicono loro, che non si era mai verificata per nessun precedente spettacolo) alla scelta stessa del titolo: «Gesù fa tenerezza / fa oratorio», «Cristo è per adulti / per gente che ha studiato» mentre Jesus «è più internazionale / più figo / più accattivante».

Sembrano divagazioni, osservazioni marginali, invece sono il personale modo dei Babilonia di accostarsi all’argomento, di illustrare la diffusione di un pensiero, di un sentimento, di un ideale attraverso il suo manifestarsi nei mass media, nelle mode, in un assommarsi di piccoli dettagli della vita quotidiana. Non a caso la loro tipica cifra espressiva resta quella delle incalzanti elencazioni: «Jesus è il nome del fidanzato di Madonna / Jesus è un paio di jeans / Jesus è una miniserie televisiva / Jesus gioca nell’Inter», mentre papa Bergoglio è un volto da copertina sugli scaffali dell’autogrill, «francesco vita e rivoluzione / preghiamo con francesco / papa francesco il Papa si racconta / i racconti di papa francesco / papa francesco la vita e le sfide».

Lo spettacolo, presentato al festival “Vie” di Modena, era già andato in scena in forma di studio a Short Theatre, con esiti controversi, e qualche eccessiva stroncatura. Per quanto mi riguarda, ne ho apprezzato l’atteggiamento sostanzialmente equidistante rispetto al problema della fede, con sguardo critico sulle gerarchie ecclesiastiche, sulla dottrina, sui dogmi imposti, e l’implicita perorazione di una spiritualità ingenua, infantile, fonte di sensazioni primarie. «Credo nelle chiese di pietra / credo nel mistero/ nel dubbio / nel bisogno / nell’invocazione d’aiuto / credo nelle chiese di pietra / credo nei loro affreschi / nelle loro pale / dove la favola della creazione emoziona…».

Mi è parso soprattutto interessante lo sforzo dei Babilonia di fare di Jesus uno spettacolo non sulla religione in sé, che sarebbe stato un obiettivo eccessivamente ambizioso, ma sul consumismo religioso, così come The end era uno spettacolo sul consumismo della morte. È sicuramente questa la chiave che più si s’addice al linguaggio del gruppo, a quel suo tono sempre aguzzo e sferzante. E infatti il brano più significativo è a mio avviso quello intitolato Paradiso subito, in cui si rivendica – come uno slogan, o un diritto sindacale – un «paradiso subito, paradiso per tutti », si chiede la chiusura dell’inferno e un Dio che non entri nella privacy dei peccatori, che anzi abolisca il concetto stesso di peccato. Si chiede un Gesù innocuo, imbalsamato, my personal Jesus.

Nel copione non mancano altri pezzi di forte impatto, come quello in cui Ettore, il figlio di tre anni dei due attori, facendo il presepe scopre l’esistenza e l’inevitabilità della morte, il fatto che un giorno colpirà fatalmente anche i nonni, anche i genitori, anche tutti i parenti e gli amici: le sue domande, i suoi angosciati interrogativi non possono di sicuro lasciare indifferenti.

Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, dopo essere usciti con i loro due ultimi lavori (“Pinocchio” e “Lolita”) dai tipici canoni espressivi che avevano caratterizzato i loro primi spettacoli, vi ritornano ora prepotentemente per interrogarsi ancora sul concetto di “fine”.

Perché infatti, questo “Jesus”, visto al Teatro Comunale di Vignola per il festival Vie, ci sembra formare una sorta di dittico con il precedente “The end”, spettacolo del 2011, non solo per le tematiche in qualche modo affini, ma anche per l’emblematica presenza che contraddistingue circolarmente i due spettacoli.

Se infatti “The end” si concludeva con la bellissima immagine di Valeria Raimondi con il suo bimbo di pochi mesi in braccio per formare una specie di icona sacra, qui lo spettacolo inizia proprio con lo stesso bimbo, inevitabilmente un po’ cresciuto, che irrompe sul palco accompagnato dalle note di “Così parlò Zarathustra” di Richard Strauss. Forse perché a lui è dedicato lo spettacolo, forse perché è a lui che lo spettacolo parla.

È infatti Ettore che, osservando la figura di Gesù sulla copertina di un giornale, ha posto ai suoi genitori le domande più incisive a cui l’ultimo spettacolo di Babilonia Teatri tenta di rispondere. È lui che in qualche modo li ha spronati a domandarsi che significato ha oggi la figura di Gesù, spingendoli ad andare oltre, ritornando ai temi che avevano caratterizzato lo spettacolo precedente. È infatti questo il punto da cui parte lo spettacolo, il fulcro su cui i due interpreti si muovono per analizzare  i luoghi comuni della figura cristologica, per demistificare un’icona buona per tutte le stagioni e di cui tutti conoscono vita, morte, resurrezione e miracoli.

La prima parte dello spettacolo è formato nello stile conclamato della compagnia, dalla forsennata elencazione dei significati che da sempre accompagnano la figura del figlio di Dio fattosi uomo. Ma tutto ciò si ferma davanti all’innocenza e all’urgenza di una domanda: perché si muore mamma?

Ecco perché, forse, Valeria Raimondi ed Enrico Castellani hanno in qualche modo sentito il bisogno di ritornare su quel tema che sembrava liquidato con “The End”.

Ovviamente a questa domanda non c’è risposta; si può solo alludere ad immagini sacre, si possono solo tessere lodi alla Madonna mentre una pioggia d’oro scende dal cielo, si può solo tornare ad evocare le chiese di pietra e il loro pietoso silenzio, mentre ti perdi felice nel luminoso sorriso di un figlio che vola in alto e che, ponendo una domanda così innocente e pura, ti ha permesso di farti ancora delle domande.

Anche in quest’occasione una canzone riempie i vuoti del palcoscenico. “Quando mi sento di dire la “verità” sono confuso, non son sicuro. Quando mi viene in mente che non esiste niente solo del fumo. Niente di vero. Niente è vero, niente è vero. E forse lo sai, però tu continuerai” urla Vasco.

“Jesus”, ultimo lavoro del gruppo veneto, vive di queste semplici emozioni con l’ausilio di tante parole e poche immagini; alla base dello spettacolo c’era forse un bisogno intimo e assoluto di dire qualcosa che è stato espresso con nuda sincerità.

Ora che Babilonia Teatri sono diventati grandi e maturi è però assolutamente necessario che trovino una nuova strada che indichi loro un cammino scevro di ogni compromesso con il passato, che li faccia arrivare in panorami inusitati, forti di nuove domande.

Con Jesus Babilonia Teatri abbandona, forse solo per un attimo, il percorso intrapreso con Pinocchio e Lolita per recuperare i segni degli spettacoli precedenti. Ma non è un passo indietro. Semmai si precisa meglio quel filone di ispirazione e lavoro che lentamente era emerso in spettacoli piccoli (La pancia, Maledetta primavera) e grandi (The end): una carica introspettiva che nasce direttamente dal vissuto famigliare. Dall’osservazione della realtà esterna, insomma, quei precedenti lavori avevano spostato pian piano l’oggetto alla realtà interna; dalla macro-società a quella micro-società che è la famiglia e che si presta come analogo campo di analisi, purché sia un’analisi non distaccata e graffiante, ma partecipata e accorata.

Punto di svolta, la gravidanza. Babilonia Teatri non ha avuto paura di rendere partecipe il proprio pubblico della “crisi” di una coppia che vede la sua trasformazione in famiglia genitoriale, non ha avuto paura di mostrare passo passo entusiasmi e dubbi. Lo sguardo caustico verso l’esterno è diventato sguardo emozionato verso l’interno. E così, dall’oggettività testuale e performativa dei primi spettacoli, si è passati, nei tre lavori che ho citato, a una soggettività emozionata o sofferta, che si lasciava intravedere attraverso fessure che oggi, col senno di poi, si mostrano come vere e proprie tappe verso quest’ultimo spettacolo totalmente dichiarato: dalla pancia esibita da Valeria incinta in La pancia al piccolissimo Ettore che compare alla fine di The end a mostrare come sia stata proprio la sua nascita il motore per una riflessione sulla morte.

Pinocchio e Lolita, pur nella loro estraneità esplicita a questa evoluzione, quasi inattesa da parte di chi si era fatto conoscere con una codificazione teatrale molto precisa con la trilogia dell’italietta (made in italy, Underwork e Pornobboy), rientrano tangenzialmente in questo processo. In questo caso, pur nell’evidente differenza di questi lavori tra loro e rispetto agli altri, va notato come Enrico e Valeria abbiano avvertito il bisogno di passare (nel titolo e nel contenuto) dagli affreschi sociali al – per così dire – “romanzo individuale”. Un segno che, anch’esso, ci mostra col senno di poi questa inesorabile linea di sviluppo verso l’Uomo. La cosa non esclude, ovviamente, quello che nei primi folgoranti spettacoli era l’oggetto forte, la Società, ma sta di fatto che – perlomeno da La pancia e soprattutto da The end – Enrico e Valeria abbiano posto al centro della propria attenzione l’Uomo, iniziando a guardare dentro sé stessi, scoprendo giorno per giorno le loro stesse mutazioni in relazione alla nascita e alla crescita di uno, due bambini. Perché, in fin dei conti, è l’Uomo la base della Società, e non si può capire/cambiare la Società se non si inizia a fare i conti con l’Uomo.

Ecco allora che Jesus rappresenta una totale messa a nudo di questa evoluzione e della compagnia stessa. Con straordinario coraggio e con unicità: unicità di temi e unicità di modalità artistiche nell’affrontarli. Per la prima volta Enrico e Valeria sono in scena “in quanto” Enrico e Valeria: parlano in prima persona perché esprimono sé stessi, sono dunque insostituibili. E raccontano sé stessi. In apparente dialogo con Gesù. Ma il vero protagonista, questa volta, non è chi compare nel titolo: Jesus è un depistaggio, perché il vero protagonista è Ettore. Il figlio di neanche 4 anni che apre e chiude lo spettacolo, prima con le sue corse concentriche e gioiose nel palco vuoto, poi saltando con le corde elastiche sostenuto dai genitori (e qui l’autocitazione va ovviamente al “volo” di Ferrarini nel finale di Pinocchio: e d’altra parte Jesus è colmo di rimandi di questo tipo a molti spettacoli precedenti). È lui il motore concettuale dello spettacolo: è lui che chiede perché si vive e perché si muore, è lui che innesca risposte difficili, ma che soprattutto provoca domande. Ecco, le domande sul senso della vita (nientemeno! ebbene sì, una cosa così pura e semplice – “il senso della vita” – generalmente espulso dalle creazioni contemporanee, o diluito attraverso altri discorsi, o rielaborato in dialettica con la divinità: e parlando di Jesus non si può non ricordare che pochi anni fa Castellucci si era interrogato con asprezza Sul concetto di volto nel figlio di Dio) rimbalzano nella loro immediatezza popolare (pop) sulla scena, mostrandosi nella loro enormità e fragilità al tempo stesso. A cominciare dalla prima scena, nella quale Enrico e Valeria, che sono Enrico e Valeria, raccontano con irresistibile autoironia, le vicissitudini della creazione stessa di questo spettacolo. E, quindi, ecco le difficoltà nel lavorare su un’opera programmaticamente imperniata su Gesù, anzi su Jesus all’inglese. Nella poetica pop di Babilonia Teatri, è inevitabile che la riflessione sul senso della vita innescata dalle domande di Ettore si trasformi in un viaggio all’interno del più immediato riferimento popolare della spiritualità, Gesù appunto, che infatti – come per miracolo – compare ovunque, nel sublime e nel trash, ma soprattutto nel Gesù Bambino che Ettore deve deporre nel presepe il giorno di Natale. Ma Jesus non racconta di Gesù e neppure della sua ricerca, bensì del desiderio di una religione a misura d’uomo, direi quasi a misura di bambino: “Paradiso subito!” chiede Valeria (nuova declinazione domestica del mitico Paradise now?), mentre Enrico nello struggente monologo finale invoca una dimensione intima di una religione tutta interiore. Quando saranno disponibili i testi di questo spettacolo sarà importante leggerne le sfumature, che nello spettacolo finiscono per perdersi, perché riveleranno esattamente il senso di questa ricerca interiore, che non è certo una svolta religiosa o mistica, ma piuttosto il pensiero laico di chi avverte l’inadeguatezza di una risposta sempre e solo laica ai tanti perché dell’esistenza, e si interroga. Condividendo questa interrogazione e mostrandosi a nudo di fronte allo spettatore. Letteralmente a nudo. Enrico e Valeria, che già erano stati una caustica Sacra Famiglia e una caustica accoppiata Adamo-ed-Eva in made in italy (si noti, en passant, come il richiamo alla religione sia stato sempre una costante in tutte le opere di Babilonia Teatri), tornano a rivestire i panni di entrambe le coppie bibliche, ma con segno diverso. Dalla Sacra Famiglia a una famiglia in cerca di risposte che forse hanno a che vedere con il sacro. Da Adamo-ed-Eva a Enrico-e-Valeria, nudi, che si abbracciano, per ritrovare nel caldo mistero dell’amore una risposta tutta fisico-emotiva alle domande: il mistero dell’amore da cui scaturisce il mistero della vita che si appaga nel ripetere quel mistero dell’amore. Insomma, uno spettacolo semplice semplice perché affronta in maniera immediata e facilmente comprensibile i dubbi condivisi da tutti; e al tempo stesso uno spettacolo difficile, perché quei dubbi siamo abituati a esorcizzarli fin troppo presto, o sposando una religione o rifiutandola o perfino allontanando quei dubbi stessi. Forse Jesus non c’è, non esiste, ma meno male che c’è Ettore a ricordare l’importanza di quelle domande.