DAVID É MORTO

David è morto è il racconto di cinque morti che parlano. Della loro vita e della loro morte.
Sono cinque epitaffi di una moderna Spoon River.
Chi si racconta da morto non ha nulla da perdere né da nascondere.
Così sono i protagonisti della nostra storia. Diretti e spietati come lupi mannari alla ricerca di cibo.
Alla ricerca di un senso che hanno perduto.

David è morto è il racconto di una provincia lasciata a se stessa, dove si corre per non sapere quel che si lascia alle spalle, per non vedere quel che c’è attorno, per continuare a sognare un traguardo che non c’è.

David è morto è una storia impalpabile: pretesto per costruire un caleidoscopio di tic, un abbecedario di manie, un carnevale di follie contemporanee. Quello che si compone è un ritratto delle idiosincrasie del mondo in cui viviamo, dove ad essere importante non è l’intreccio quanto la possibilità di dipingere dei tipi umani e dei caratteri, che racchiudono in sé il disagio di abitare questo tempo.
David è morto è un epitaffio cantato.
È il sogno di un musical postumo.
È la creazione di miti già morti che dalle nuvole si affacciano sulla terra per gioire della loro gloria post mortem.
È un successo d’oltretomba.
Il primo posto nella classifica della fine.
La hit di un successo tumefatto ed agrodolce. Nauseabondo come ketchup andato a male. Come cipolle senza lacrime. Come solletico su lastre di marmo chiamate lapidi.

CREDITI

da un progetto di Babilonia Teatri
di Valeria Raimondi e Enrico Castellani
parole di Enrico Castellani
musiche originali Cabeki
con (in ordine alfabetico) Chiara Bersani, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi
produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, Emilia Romagna Teatro Fondazione  – Teatro Nazionale
foto di scena Eleonora Cavallo

“Coraggiosi e politically incorrect i Babilonia Teatri (Valeria Raimondi ed Enrico Castellani) ti prendono per la gola e stringono fino a lasciarti senza fiato. Anche il loro ultimo lavoro, «David è morto», non risparmia niente allo spettatore e lo spinge all’angolo, mettendolo di fronte a una società perturbata e per certi versi anche a se stesso, come davanti a uno specchio.”

Caterina Barone

RASSEGNA STAMPA

In Due donne che ballano del catalano Josep Benet i Jornet, recentemente allestito da Veronica Cruciani con Maria Paiato e Arianna Scommegna, un’anziana signora e la sua badante pongono termine alla propria vita ingerendo insieme un’overdose di farmaci. In Per strada di Francesco Brandi, realizzato tempo fa al Franco Parenti da Raphael Tobia Vogel, c’è un giovane che va in giro fornito di un kit per spararsi, e un altro che alla fine lo usa davvero al suo posto. In Animali da bar della compagnia Carrozzeria Orfeo c’è un rapinatore depresso che continua invano a tagliarsi le vene, e un invisibile vecchio che supplica di essere aiutato ad andarsene.

In David è morto dei Babilonia Teatri sono addirittura cinque i personaggi che si danno volontariamente la morte, e rievocano in varie chiavi le circostanze che li hanno indotti a farlo. C’è un’epidemia di suicidi che sembra stia attraversando, più o meno sotterraneamente, i palcoscenici italiani. E l’aspetto più significativo è che, ad accomunare queste proposte, l’ipotesi dell’auto- distruzione non viene in genere affrontata come l’esito di un gesto irrazionale, disperato, ma come un’opzione culturale, un’autonoma scelta di pensiero. Potrebbe essere un fatto casuale, ma forse invece è il segnale di un più profondo malessere che affligge la nostra società.

David è morto parte dal racconto di un ragazzo, David, appunto, che – per dirla breve – una mattina si pianta un punteruolo nel cuore per fare dispetto al padre. Prende poi la parola sua sorella, una soldatessa cacciata dalla caserma per essersi fatta tutti i commilitoni rifiutando però le avance del maresciallo, che si impicca dopo avere dipinto col sangue le pareti del garage. Seguono quindi la madre e il padre, schiacciati dal peso del proprio fallimento, e infine Alex, il cantante pop che voleva risolvere la propria una lunga crisi creativa celebrando in un disco la morte di David.

Coi temi del lutto, del trapasso i Babilonia si erano già cimentati nel bellissimo The end. In questa nuova creazione, tuttavia, i personaggi muoiono, ma non c’è l’orrore della morte, lo strazio, il pianto. L’orrore della morte è anzi paradossalmente sottaciuto, reso allusivo, trasversale. Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile del Veneto e da Emilia Romagna Teatro, è asciutto, meno beffardamente deflagrante dei precedenti e dotato invece di una scrittura più matura e raffinata: una scrittura dal tratto eminentemente poetico, non perché rinunci alla solita durezza, ma perché affronta la materia in una forma metaforica, la prende da fuori, da lontano.

Ciò che caratterizza il denso testo di Enrico Castellani è il continuo intrecciarsi di queste tragedie i ndividuali – tragedie grottesche, evocate lividamente – con le futili mode, coi vezzi linguistici, col vacuo consumismo di una provincia ormai del tutto standardizzata. Più che di un’ango- scia che spinge al suicidio, qui si parla di un profumo di Dolce & Gabbana, di “Abbracci” del Mulino Bianco, di fascicoli De Agostini. L’azione, non a caso, si svolge sotto un unico arredo scenico, un enorme cuore rosso da pubblicità dei cioccolatini, e tutti i morti sono pronti a inscenare un macabro concerto rock.

I materassi di lattice («Un lattice puro bisogna aspirarlo spesso. Girarlo spesso. Fargli prendere spesso aria. Meglio un lattice innestato con l’acqua. Glielo garantisco io») , i panettoni Motta senza canditi, i clown-dottori: ognuna di queste espressioni del nostro tempo sembra assumere un rilievo un po’ mostruoso, una sorta di vita propria a scapito della vita dei soggetti che se ne fanno condizionare, che ne restano per così dire stranamente disumanizzati. È difficile dire se siano la causa di quelle morti, o solo lo sfondo in cui esse avvengono. Certo diventano una cartina di tornasole, il riflesso speculare di una condizione di disagio.

Il copione ha lampi di rara forza visionaria, come il brano in cui tutto il sapere umano è ridotto a un vuoto elenco di nozioni scolastiche, o quello in cui il padre descrive la terra come una distesa di lapidi di marmo. Il monologo del cantante che odia i clown- dottori è degno della ferocia di Rodrigo Garcìa, il grande provocatore del teatro europeo, forse ora rientrato nei ranghi. E ferocissimi, nella scarna messinscena, sono i momenti in cui la sorella dispone sul petto di David, all’altezza del cuore, due pezzi incrociati di nastro adesivo rosso, o in cui calano dall’alto due enormi fiocchi, uno azzurro e uno rosa, equiparando crudelmente la nascita e la fine.

In questa che è una delle loro prove più alte i due autori, Valeria Raimondi e Castellani, non sono alla ribalta, ma i cinque attori selezionati attraverso video postati su Facebook ne ricalcano fedelmente l’incalzante stile rap. Sono bravi Filippo Quezel (David), Emiliano Brioschi (il cantante), Alessio Piazza (il padre), Emanuela Villagrossi (la madre). Ma su tutti si impone Chiara Bersani, la sorella, una performer disabile col corpo deformato da una grave patologia ossea, in grado di muoversi solo in sedia a rotelle, ma capace di sfoggiare un’inusitata potenza fisica e vocale. Memorabile la sua apparizione iniziale su un’incongrua jeep giocattolo.

Si sono uniti due teatri nazionali, il Veneto e l’Ert-Emilia Romagna teatro per produrre il nuovo lavoro di Babilonia teatri, cioè Valeria Raimondi e Enrico castellani, attori-autori molto ammirati della nuova scena italiana fin dal loro Made in Italy che a nostro parere resta il lavoro più dirompente per il graffio complice e sardonico verso la cultura pop, poiché poi la sensazione è che il loro teatro -la deriva del significante, la destrutturazione della rappresentazione, l’antinaturalismo della recitazione “snaturata” fino a diventare delamazione- sia diventato un ripetitivo clichè. Cambia, di volta in volta, la cornice e le parole (difficile parlare di testo).

In David è morto che ha debuttato al Goldoni in dicembre e ora arriva a Bologna, l’immersione nel presente ha come sfondo ancora una volta la provincia italiana (i Babilonia sono veronesi), un mondo da paura, abitato da solitudini profonde, ossessive e sgangherate, vite sprecate, mai vissute interamente, chi drogandosi, chi inseguendo un sogno irraggiungibile, fino, appunto, a morire. Si toglie la vita David il ragazzo (Filippo Quezel) che ci viene mostrato all’inizio mentre gioca a pallacanestro e ascolta i Blur, cui seguirà il suicidio della sorella Iris (Chiara Bersani), dei genitori (Alessio Piazza e Emanuela Villagrossi) e di Alex reuccio del pop (Emiliano Brioschi). Come sempre negli spettacoli dei Babilonia la scena è vuota, prendendo forma di volta in volta con qualche oggetto, c’è poco appiglio al testo, ingredienti un po’ sfruttati e un filo di banalità  nella vena critica sociale, culturale, umana. Restano due belle immagini, arcaiche e popolari: il cuore rosso gigante al centro della scena che apre lo spettacolo e il cimitero di croci di legno dove si appoggiano i corpi degli attori che lo chiude.

È di scena il nuovo spettacolo dei Babilonia David è morto (visto  al Teatro Goldoni di Venezia e poi in tournée) e il pubblico presente sa che potrebbe essere “disturbante” per i temi trattati e per le riflessioni che potrebbero provocare. Coprodotto da due teatri nazionali lo Stabile del Veneto ed Emilia Romagna Teatro, la pièce di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani fin dal titolo, sembra proprio puntare su questo e sullo spaesamento che nasce da un teatro che cerca di togliere la poltrona della consuetudine dall’orizzonte del pubblico. Il nucleo dello spettacolo, infatti, ha come tema storie di personaggi che ritornano dal regno dei morti per raccontarci, a posteriori, il perché della loro fine, del loro disagio mentale.

Ci rendiamo conto che l’origine di tutto sta nella famiglia di David che esordisce raccontando le sue difficoltà con i numeri ed elencando tutti i gatti che ha avuto e le loro morti.

È il primo a uccidersi, piantandosi un punteruolo nel cuore, seduto su una sedia, vestito di rosso per fare dispetto a suo padre che quel colore lo odia.

Lo seguirà poi la sorella Iris, impiccata nel garage, certamente per emulazione ma anche per ribadire il proprio disagio (è una donna che ha fatto il militare “facendosi” anche parecchi commilitoni, che il padre disprezza apostrofandola a male parole) mettendo per così dire con le spalle al muro i genitori, del tutto incapaci non solo di sopportare, ma perfino di capire il perché di quelle due morti che hanno gettato lo scompiglio nel mondo all’apparenza perbenista al quale appartengono. La storia

di questa famiglia, votata alla morte, si intreccia con quella di un cantante pop, Alex, diventato famoso con la canzone Nuvole che vorrebbe cantare la morte di David. Ma gli manca l’ispirazione e sa che non c’è luce al fondo del nulla. E c’è un ideale “buttafuori”, che introduce questa tragedia, dove non resteranno che lapidi, di gente piccola piccola

ma anche di dieci ragazzi che, per emulazione e disperazione, si sono uccisi dopo David.

Così, su di un palcoscenico dominato da un grande cuore rosso circondato da lampadine luminose – ma non mancano neppure le croci-simbolo, che i Babilonia si portano dietro da alcuni spettacoli -, con l’aiuto di pochi oggetti quotidiani, percorso per tutta la durata («un musical postumo» lo definisce l’autore Enrico Castellani) dalla musica composta da Cobeki, eseguita dal vivo da Alex e dagli attori, mescolata a quella dei Blur, di Britney Spears, dei Placebo, di Brian Eno, dalla voce inimitabile di Maria Callas che canta Casta divadalla Norma di Bellini e da sciabolate di luce, va in scena la storia di uno scontento,

di un’incapacità di vivere che potrebbe apparire, ma non lo è, generazionale visto che investe anche i genitori di David.

Lo spettacolo di Raimondi e Castellani ha al suo centro il lavoro con gli attori e sugli attori questa volta ancora più profondo e significativo, costruito sull’emozione, su di una presenza che s’impone al pubblico, che li ha applauditi a lungo. Come Chiara Bersani, disabile, che fa della sedia a rotelle con cui si muove per la scena, una protesi esistenziale, comunicando violentemente con tutta se stessa squarci di vita vera e non

solo immaginaria. Ma sono da ricordare, con un elogio, anche le new entry del gruppo, scelti con una severa selezione, da Emiliano Bruschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel a un’attrice già nota nel teatro di ricerca come Emanuela Villagrossi.

Quando, dieci anni fa, è nato ad Oppeano, in provincia di Verona, il gruppo Babilonia Teatri, Enrico Castellani e Valeria Raimondi non pensavano certo che dieci anni dopo i loro spettacoli sarebbero stati prodotti da due Teatri Stabili Nazionali (Veneto e Emilia Romagna) e ospitati nei principali teatri di tradizione.

Eppure il loro modo di fare teatro non è cambiato molto, è cambiato piuttosto il mondo teatrale, dove la crisi ha accelerato l’operazione di rinnovamento, facendo cadere molte barriere.

Così è una novità, ma non una sorpresa, che “David è morto”, il nuovo spettacolo – dopo il debutto al Verdi di Padova la prossima settimana sarà al Goldoni di Venezia – di fronte a un pubblico che in parte non conosce un gruppo, che però in questi anni ha vinto la gran parte dei premi teatrali disponibili e ha contribuito a mutare lo scenario di quello che un tempo veniva chiamato teatro di ricerca, poi teatro off.

“David è morto” (se ne è parlato ieri sera alle 20.45 su Rai 5 all’interno del programma culturale Memo) è – come dicono Enrico Castellani e Valeria Raimondi, qui solo autori e registi – una sorta di Spoon River contemporaneo della provincia veneta. In scena cinque personaggi, tutti morti suicidi, che raccontano la loro vita e soprattutto i motivi della loro morte. Raccontano un vuoto feroce, in cui qualsiasi cosa equivale a un’altra. C’è chi sogna un nemico che dia un senso alla propria esistenza, chi si nutre di fissazioni («amo i carnivori, odio gli erbivori») che insegue un successo fragile e impossibile da mantenere, chi vuole il decoro anche di fronte alla tragedia più annichilente, insomma un piccolo mondo popolato da un dolore che vede nella morte l’unica salvezza. E tuttavia il riassunto non rende giustizia al teatro dei Babilonia, che è costruito su tecniche molto precise, a cominciare dal modo di recitare, sempre scandito, quasi monocorde, come svuotato da ogni emozione. E poi c’è sempre qualcosa di irridente nel testo, per esempio quelle lunghe liste in cui i personaggi si perdono, vittime di una proliferazione che racconta meglio di ogni altra cosa la dissoluzione di ogni identità. E ancora la musica, il costruire immagini che stanno tra il postmoderno ed il kitsch. Forse il limite di “David è morto” è che non segna

una nuova tappa nell’avventura teatrale del gruppo, piuttosto consolida il già fatto, affidandosi all’interpretazione di altri attori (in questo caso Chiara Bersani, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi) e a una struttura narrativamente più ricca e complessa.

Coraggiosi e politically incorrect i Babilonia Teatri (Valeria Raimondi ed Enrico Castellani) ti prendono per la gola e stringono fino a lasciarti senza fiato. Anche il loro ultimo lavoro, «David è morto», non risparmia niente allo spettatore e lo spinge all’angolo, mettendolo di fronte a una società perturbata e per certi versi anche a se stesso, come davanti a uno specchio.

La storia è quella di cinque morti suicidi che a posteriori raccontano il loro disagio esistenziale: una sorta di Spoon River contemporanea, dove la commiserazione è bandita per lasciare campo a disillusione e amara lucidità. I cinque attori che agiscono in scena Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi e Chiara Bersani, sono stati selezionati attraverso Facebook, dove i candidati hanno postato i loro video di presentazione per il casting. E va dato atto ai Babilonia di aver plasmato in un paio di mesi i primi quattro, rendendoli autentici e incisivi. Un discorso a parte va fatto per Chiara Bersani, performer disabile, con una consolidata esperienza al suo attivo, capace di veicolare attraverso corpo e voce, entrambi potenti, emozioni vere.

Il nucleo centrale della vicenda è dato dalla famiglia di David, il primo ad andarsene, suicida su una sedia della cucina, vestito di rosso per fare un dispetto al padre che odia quel colore. E poi a seguire sarà Iris a emulare il fratello e a togliere ogni possibile appiglio ai genitori, lasciati soli a fronteggiare la propria, ormai decennale, estraneità e come tali incapaci di sopravvivere. Con la loro storia si intreccia quella di Alex, cantante pop, in crisi di ispirazione: ha la funzione di voce narrante e in ultimo soccombe anch’egli al male di vivere. Non c’è luce in fondo al tunnel di un mondo malato, privo di valori, di solidarietà, di condivisione.

Il gigantesco cuore rosso luminoso che domina il palco, le croci, il gioco potente delle luci e le musiche, che a quelle originali di Cabeki, uniscono i Blur, Britney Spears, iPlacebo, Brian Eno e Casta diva dalla Norma di Vincenzo Bellini, creano un’installazione, visiva e sonora, avvolgente.

Possono sconcertare i Babilonia, ma certo lasciano il segno, anche su platee in larga parte tradizionalistiche come quelle degli abbonati dello Stabile. Inseriti per la prima volta nel cartellone ufficiale della stagione di prosa, mercoledì sera sono riusciti a tenere inchiodati gli spettatori alle poltrone del Verdi e a conquistarsi un caloroso plauso.

È indubbio che i Babilonia Teatri abbiano spostato l’asse del teatro. Chi è andato ieri all’Alcione a vedere David è morto  difficilmente lo farà con uno spettacolo di un cartellone classico. E questo è un dato innegabile. Il secondo è che i Babilonia sono riusciti a riempire l’involucro dei gruppi nati negli anni Novanta con segni decisamente diversi. In quegli anni nascevano Motus, Teatrino Clandestino, gli Artefatti, Lemming, Teatro Aperto, gruppi con un approccio iniziale spesso autobiografico-analitico-esistenziale. Dimensione personale, quasi di coppia, che c’è nei Babilonia ma senza quella personalistica.

Di quei gruppi non c’è nemmeno più l’ossessione a occupare spazi non convenzionali. I Babilonia Teatri possono andare tanto all’Alcione come al più borghese Teatro Nuovo, anche se sono nati in uno spazio decisamente off. Detto questo quali sono i segni che si sommano, a volte si sovraccaricano sul palco? Segni Pop dicono loro, aldilà della musica energetica che spacca i timpani e copre qualche magagna nel ritmo. Ed è vero che il grande cuore appeso ci richiama l’universo di Jeff Khoons (o di Baldessarri) ma le croci con i cuori sono quelle di un San Martino del Carso di Ungaretti, magari viste anche in una delle manifestazioni contro i morti sulle strade.

E allora? Il postmoderno è questo mescolarsi di alto e basso, certamente. Ma almeno i Babilonia lo fanno con struggente ironia e questo, come era già accaduto in Pinocchio, li salva dal facile pietismo di chi porta in scena “corpi diversi”. Pippo del Bono c’entra solo perché anche qui vediamo la poesia di piccole fatiche. L’impronta è Babilonia Teatri perché quel declamato stentoreo ora è anche di Filippo Quezel (il David del titolo) che recita il suo epitaffio di Spoon River innescando le associazioni estenuanti care al duo Raimondi-Castellani. La strada è difficile, più che nei precedenti lavori. Questa volta manca l’aggancio emotivo, l’appeal alla pancia.

Si passa al secondo livello di segni, quelli che vanno subito decodificati, collegati agli altri segni sulla scena. Il tempo per riflettere c’è perché le lapidi viventi non si affastellano e non si accumulano per iperboli, anzi. Qualche lentezza o lungaggine può essere tagliata nelle successive repliche. Chiara Bersani sulla sua automobilina racconta come pure Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Emanuela Villagrossi di un quotidiano cinico e squallido come l’umanità di David Forest Wallace. Più vera però e non perché ogni tanto si accendono le luci in sala o perché si chiuda pure il sipario prima del tempo, ma piuttosto perché i corpi vivono di un testo che non conoscono.

La voce off (onnisciente) di Enrico Castellani annuncia quel che vediamo. Epica nell’epica. In scena si racconta di suicidi, fuori scena si presentano gli attori-personaggi, che stanno lì come gli attori di Strehler nel suo Arlecchino servitor di due padroni. È l’unico modo oggi per indagare la tragedia: farcela semplicemente vedere a posteriori. Si replica stasera.

Quello che rimane, in un primo momento, di David è morto dei Babilonia Teatri, andato in scena all’Arena del Sole di Bologna dal 9 al 21 Febbraio, è il flusso inarrestabile degli applausi finali, poi Tender dei Blur (quasi una colonna sonora su uno spettacolo che sembra riprendere, fra le altre cose, elementi cinematografici), poi ancora il grande cuore rosso al neon sul fondo della scena e infine il naso di un pagliaccio legato ad una croce.

In scena cinque personaggi, attraverso dei monologhi alternati, ricostruiscono post mortem la trama della tragedia che li ha travolti in vita.

E’ un susseguirsi di frammenti, immagini, piccoli spunti che ricorrono assemblati, elencati, montati attraverso un mix dolce e amaro, come gli aggettivi con cui la sorella del ragazzo suicida ne descrive il sangue, prima di replicare il gesto estremo. Il tutto in un piccolo paese in cui per la mancanza di stimoli, altri ragazzi in poco tempo faranno la stessa fine.

Sullo sfondo la tragedia di una coppia di genitori che, con dei rievocativi passi a due, mostra una passione ormai andata: colpa del tempo, della vicinanza, della morte interiore che  li ha colpiti e che non è poi così diversa da quella dei loro figli.

Pirandelliano l’atteggiamento della madre che si preoccupa di nascondere ciò che realmente è accaduto e di celare dentro sé la propria morte, anche se la società di cui la pièce si vuole fare specchio, non è certo quella borghese e sicula che descriveva il premio Nobel a inizio novecento, ma quella attuale e globale, estremamente apatica e molto più mediatica.

Si manifestano allora sin dalle prime entrate i peculiari caratteri che la contraddistinguono: dall’espediente della voce fuori campo che quasi come in un talk show, presenta gli attori con concisi accenni biografici per  poi svelarci i personaggi in cui “solo per noi!” si esibiranno, fino all’utilizzo di un linguaggio ripetitivo e asettico (quasi da navigatore satellitare) dove si intrecciano citazioni di ogni genere: frasi di film, oggetti di pubblicità, titoli di romanzi e pièce teatrali.

Gli elementi di continuità rispetto ad altri spettacoli della compagnia sono fortissimi: il tono della declamazione di Chiara Bersani, che in lingerie scarlatta, nei panni della sorella di David, ricorda quello della Raimondi nel precedente Jesus ed anche molte tematiche ritornano: come quella della famiglia tutt’altro che unita, che si riunisce a natale per onorare la tradizione… anche se questa volta al posto dell’agnello, si mangia il panettone. Motta! (Senza canditi!).

Ed a proposito di quel famigerato agnello, che per il suo rivestimento in pelle aveva destato, mesi fa, delle polemiche nate dagli animalisti ed incapaci di risolversi in un dialogo, è interessante la posizione qui denunciata da alcuni personaggi. La vita per loro si divide in due: c’è giusto e sbagliato, ci sono i carnivori e ci sono gli erbivori (da cui diffidare sempre!), c’è chi a colazione mangia dolce e chi (dio ce ne scansi) mangia salato.

E poi ci sono i primi e tutti gli altri: questo lo dice Alex, la pop star che fa il suo esordio nello spazio circolare fra il palco e le poltrone (speculare la scelta della contenuta sala Salmon, a garantire un rapporto diretto con il pubblico).

E’ grazie ad Alex che conosciamo questa storia: lui, un numero uno senza ispirazione, si illumina di fronte alla tragedia che tradurrà nel nuovo, fortunato, singolo “David è morto”. Il pubblico potrà ascoltarlo live in uno spassosissimo momento in cui gli attori rockeggiando con chitarre elettriche in mano, lo coinvolgeranno in un intrattenimento che si mescola alla cupezza della strumentalizzazione che rivela. Anche la pop star si unirà alla schiera dei morti suicidandosi alla fine del pezzo.

Scriveva Cesare Pavese, in relazione all’Antologia di Spoon River, che per Lee Masters la morte “è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima”.

C’è molto Lee Masters dietro ai personaggi che nel finale siedono, ognuno con il proprio simbolo accanto ad una croce. Ma una palla, un naso da pagliaccio, il gesto di un abbraccio, una chitarra elettrica e i fiori bianchi non sono certo le sole cose che rimangono della pièce.

Di questo delirio quella che resta è l’ambiguità, l’impossibilità di separare il cuore rosso dalle croci, la parlata all’unisono dei coniugi dalla loro effettiva distanza, il divertimento dell’intrattenimento dallo scoramento per i contenuti.

Come del sangue di David, del riuscito spettacolo dei Babilonia rimane questo: il dolce e l’amaro.

Un titolo scomodo, un tema universale, un linguaggio che colpisce lasciando i segni, un trip macabro nella coscienza più intima dell’uomo, il superamento del limite delle coscienze attraverso una rischiosa invasione di campo nella spiritualità dell’oltre-vita.

“David è morto” ultimo spettacolo di Babilonia Teatri in scena all’Arena del Sole di Bologna sino al 21 febbraio 2016, sembra l’ennesima tappa di un percorso verso l’ignoto e con l’ignoto spirituale, iniziato dall’incontro con la fine da cui l’omonimo spettacolo “The End”, e che forse proseguiva nello spettacolo “Jesus”. Non si tratta di uno spirituale per religiosi o per eterei, ma per uomini attaccati alla vita e alla terra.

Sulla scena un cuore luminoso dai cromatismi rosso fuoco incornicia le vicende di cinque morti parlanti di cui il protagonista è David (Filippo Quezel), presentato da una voce fuori campo. David ci racconterà la sua storia nel suo nuovo stadio oltre-vita seguendo un ritmo verbale vertiginoso, quasi senza pause e senza respiri, elemento che caratterizzerà tutti i monologhi-dialoghi di questo spettacolo. Una mattina perfetta per togliersi la vita, David penserà al suicidio perfetto e lo descriverà con una precisione dettagliata dagli esiti nauseabondi. Sua sorella Iris (l’attrice disabile Chiara Bersani) ci racconterà – con una recitazione da capogiro – delle sue abitudini e di quello che odia. Per  esempio confessa ild3 suo disprezzo e la sua diffidenza per tutti i vegetariani. Oppure quando al mattino si alza a fare colazione, preferisce mangiare cibo dolce. Ma la mattina del suicidio di suo fratello David, la colazione era salata: dava di ketchup, dava del sangue di suo fratello. David e Iris diventano a tratti i personaggi-icone del disagio di una generazione o di quella cerchia di persone per cui non esiste più il rapporto tra genitori e figli, o per cui forse non è mai esistito (Iris veniva picchiata dal padre).

Le figure genitoriali (Alessio Piazza e Emanuela Villagrossi) alloggiano in una dimensione parallela a quella dei figli. Incomunicabilità e mondi asettici li dividono, al punto che anche Iris dovrà pensare al suo suicidio e si toglierà la vita impiccandosi per comunicare con loro (o forse per vivere come avrebbe voluto?) e per seguire il fratello David. Gli attori di “David è morto” trattengono l’energia per liberarla nella potenza verbale, sviscerano i pensieri trattenuti dei personaggi per srotolarli nella stratificazione e nello spessore di un malessere interiore congenito e legato all’ontologia dell’esistenza stessa. Nell’ultima parte Alex (Emiliano Brioschi) nel ruolo di un cantante diventato famoso grazie al singolo “Nuvole” entra in scena e, come una specie di deus ex machina, sviluppa gli aneddoti della vicenda, ma senza darne una reale soluzione. Racconta dello snervante incontro con una venditrice di materassi e degli inutili dettagli legati alle caratteristiche di questi materassi. Ricorda il giorno della sua illuminazione: il giorno in cui ha sentito al tg la notizia del suicidio di David. Da quel giorno gli è venuta l’idea della suo nuovo successo musicale, la canzone dal titolo “David è Morto!”. Un cimitero di croci invade la scena e nessuno immaginerebbe che la nuova hit di Alex sarà cantata proprio lì sul palco del teatro. Toni macabri, brividi lungo la pelle, una specie di funerale rock con le chitarre stridenti e il ritornello ripetuto come un delirio impazzito, come un grido di aiuto. Alla fine Alex si punterà la pistola alla testa.

“David è morto” è uno spettacolo disgregante, martellante, intelligente e oracoleggiante. Quello di Babilonia Teatri è teatro del presente e del futuro, un po’ fuori dagli schemi e un po’ lapidario.

Spettacolo dinamico, dai tratti paradossali ed ironici. E’ il racconto di cinque morti, che scagliano contro lo spettatore tutte le contraddizioni della società contemporanea. Lo fanno con convinzione, irriverenza e senza filtri, dopotutto cos’hanno da perdere? Sono morti!

Per la prima volta Babilonia Teatri porta in scena la realtà di oggi attraverso il racconto di una storia, ovvero quella di una famiglia, fratello sorella e genitori, che si intreccia con quella di un fantomatico cantante pop. Il filo rosso che unisce i cinque personaggi è la morte per suicidio, che vuole essere “metafora di un tempo in cui i personaggi si muovono senza avere un orizzonte reale, nel quale annaspano e non trovano una logica per dare un senso alla loro vita”, come ci spiega Enrico Castellani, autore e regista insieme a Valeria Raimondi.

La vicenda è ambientata in una piccola provincia, la scena è semplice e simbolica, gli attori sono sempre tutti visibili in scena, esclusa la voce fuori campo che entrerà in un secondo momento. I personaggi si alternano in monologhi volti a creare dei brevi autoritratti dei personaggi, denunciando i disagi e le contraddizioni in cui si sentono coinvolti, in cui tutti noi siamo coinvolti.

Gli attori, prima di essere personaggi, sono solo attori; infatti sono presentati con i loro veri nomi, con la loro vita, seguendo quello che è lo straniamento del teatro di Brecht: gli attori non si immedesimano nel loro personaggio, ma lo raccontano. Ed è in questo modo che ne ricaveranno una conoscenza, un sapere, un qualcosa di utile per se stessi. Uno spunto di riflessione. La riflessione è proprio ciò che questo spettacolo chiede, anche al suo pubblico. La paradossalità della vicenda allontana da qualsiasi immedesimazione, lo spettatore ne esce infatti confuso, ma con qualcosa su cui pensare, e, a mente fredda, cercare di dare alla pièce un senso che apparentemente sembra sfuggire, ma c’è. E riguarda noi, la società in cui siamo immersi, ricca forse troppo di contraddizioni, di aspettative e sogni non chiari, di rapporti interpersonali quasi inesistenti.

Ad apertura di sipario un grande neon a forma di cuore sovrasta il centro della scena, la sua luce è rossa ed accecante: lo spettatore fatica a mantenere lo sguardo sull’attore che si trova proprio davanti, intento a palleggiare con un pallone da basket. I nostri occhi sentono un certo fastidio, non riusciamo più a capire quale dei due, il cuore o l’attore, sia in primo piano, quasi si fondessero insieme. Una voce fuori campo amplificata, che si scoprirà essere il narratore, ci rivela che il ragazzo che vediamo si chiama Filippo, ha imparato a palleggiare così bene per lo spettacolo, la musica di sottofondo l’ha scelta lui. Ma Filippo smette di palleggiare. Guarda verso di noi, verso il pubblico. Ora è David, un ragazzo di vent’anni che racconta con voce fin troppo scandita, ciò che lo ha spinto al suicidio. Perchè si, David è morto e il cuore con cui si fonde illusionisticamente sulla scena è il suo.

“Io sono il numero 8 miliardi centotrentasettemilioni e ottantasette/ho lasciato la terra alle 9 e 38 ante meridiam/del 25 maggio 2015/mi chiamavo David/ora David è morto/è un numero/questa è la storia del numero 8 miliardi centotrentasettemilioni e ottantasette”. Si presenta così il nostro protagonista, che con voce perentoria e molto impostata, forse a  evidenziare la sua distanza dalla vita e dalle emozioni che essa comporta, ci  racconta, inondandoci con raffiche di parole, ciò che l’ha condotto al suicidio: è stato un disagio, un male di vivere, forse un senso di incomprensione e di incomunicabilità, soprattutto con il padre.  Muore infatti indossando il maglioncino rosso, il colore che il padre tanto odiava, in segno di sfida.

Terminato il suo monologo, lascia la parola a Chiara, una piccola ragazza che fa il suo ingresso in scena sopra una macchina giocattolo elettrica, gironzolando per il palco con un microfono in mano. La voce fuori campo la presenta: è una esperta e pazza performer, ama cantare e ballare, la musica di sottofondo è di Britney Spears. Chiara invita il pubblico ad alzarsi, a batter le mani,a partecipare al suo “concerto”. La fermano. E’ tempo che Chiara sia Iris, la sorella di David.

“Il mondo si divide in due/erbivori e carnivori/io degli erbivori non mi fido/diffidare degli erbivori […]chi ha paura scappa/e pur di scappare è pronto a tutto/non avere paura dei forti./E’ di chi ha paura che devi avere paura/diffida degli erbivori/è gente che ha paura/ io sono una carnivora/quella notte sono tornata a casa/ma non è stata una fuga la mia/Mi hanno cacciata loro”. Iris è una figura irriverente, un pò ambigua, un pò troppo dai facili costumi, tanto che per questo viene cacciata dall’esercito in cui è arruolata; lei crede che si stato un provvedimento ingiusto, dopotutto non è stata lei a sedurre il superiore. Anche Iris parla direttamente allo spettatore con grande forza, ma la sua voce è comunque impostata, distante: anche Iris è morta, morta suicida, impiccatasi, come un eroina greca, il giorno dopo della morte di David. Ci rende partecipi dei suoi ricordi con il fratello, belli e spensierati, di quando erano bambini durante le loro giornate al fiume.

A dare una più chiara spiegazione della morte di Iris sarà la presentazione dei genitori, interpretati da Emiliano e Emanuela, che, uscita di scena Chiara, entrano dai due angoli opposti, unendosi in un abbraccio danzato ed erotico; il narratore spiega che i due genitori ormai da dieci anni vivono come due estranei. David e Iris, tornati in scena, giocano tra loro, Iris fa il solletico a David; alla fine segna a livello del cuore con dello scotch rosso, una grande croce. Si accasciano a terra e in un frenesia di luci, suoni e movimento i genitori rendono in scena la loro disperazione, prima piangendo uno, poi piangendo l’altra, mentre la voce fuori campo racconta che David era il preferito della mamma, così come anche il preferito del padre, il quale, per nascondere la cosa, dava più attenzioni a Iris. Un enorme gioco di incomprensioni, di ipocrisie, di sensazioni non dette. Si racconta anche di altri parenti, che non hanno mai una buona parola l’uno dell’altro, ma il giorno di Natale sono tutti insieme a festeggiare “con il solito panettone Motta senza canditi”.

Terminata questa vivace scena, si passa al monologo dei genitori: sono al centro della scena, il cuore rosso c’è, ma è spento, parlano all’unisono, intrecciando i loro corpi tra loro. Dicono di non aver mai capito David, di non aver mai compreso il suo comportamento di averlo sempre sentito un estraneo. La madre vuole nascondere il suicidio, trasformarlo in una morte per arresto cardiaco, ma il padre non ci sta.  Sulle note di Casta Diva si affievolisce la luce e scendono due fiocchi di nascita, uno azzurro a sinistra e uno rosa a destra, che rispettivamente David e Iris abbracciano, mentre i geniori girano attorno al loro collo il nastro che li regge: anche loro sono morti.

Il sipario si chiude, entra il narratore che si presenta come Alex, un cantante pop

“Due anni fa ero il numero uno./Il primo./E il primo sarei rimasto./Il mondo di divide in due./i numeri uno e gli altri./io non diventerò un numero./Io rimarrò il primo./Il numero uno.” La sua vita, fatta di sofferenze per una madre in ospedale e per la lotta ostinata per il successo assoluto, si è intrecciata con la famiglia di David, prima con il padre, incontrato all’ospedale in quanto clown dottore, poi con la madre, responsabile del negozio di materassi in cui Alex era entrato. E infine incontra David, già morto: ne sente la notizia sullo schermo di una televisione. Ed ecco l’ispirazione che tanto gli mancava, l’ispirazione tanto agognata per scrivere il suo secondo grande successo: “David è morto” sarà il suo nuovo singolo, singolo che lo porterà nuovamente primo in classifica. Si apre il sipario e i nostri personaggi si danno ad una paradossale danza-concerto sulle note di “David è morto”, suonando delle chitarre elettriche immersi nella nebbia, con attorno delle croci, simboleggianti le lapidi. Sono in un cimitero. Alla fine dell’esibizione, Alex si spara: anche Alex è morto, morto per una aspirazione più grande di lui.

I genitori, al centro del cuore di nuovo illuminato, sopra una scala parlano al pubblico:la madre rivela la sua sofferenza per la morte dei figli, non riesce a dormire, non ha più alcun appiglio alla vita e la sua estraneità con il padre dei suoi figli si è acuita. Vorrebbe ridar loro la vita, vorrebbe partorire due gemelli, un maschio e una femmina, così da togliersi il peso di questa vicenda. Si baciano.  Scende allora una suggestiva polvere bianca (forse neve?) e i due personaggi appoggiano delicatamente il grande cuore luminoso a terra, a circondare una delle croci. Tutti i personaggi prendono posto accanto alla propria lapide, David ovviamente al centro, dentro il cuore; tutti fissano immobili il pubblico. Silenzio. La neve non scende più. Buio. Applausi.

David è morto nasce da un progetto di Babilonia Teatri,  è stato prodotto dal Teatro Stabile del Veneto in collaborazione con ERT. Gli attori in scena, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi e Chiara Bersani, sono stati selezionati tramite un casting su Facebook, e in quattro mesi sono stati formati come attori incisivi per la scena. Le musiche, le più varie e dinamiche, vanno da quelle originali di Cabeki, a quelle dei  Blur, Britney Spears, iPlacebo, Brian Eno e Casta diva.

Alcune note sullo spettacolo di Valeria Raimondi e Enrico Castellani. In programma all’Arena del Sole di Bologna fino al 21 febbraio.

LA SCOPERTA DI UNA PERFORMER

“Il mondo si divide in due / erbivori e carnivori / io degli erbivori non mi fido / diffidare degli erbivori”: la strepitosa Chiara Bersani è la grande sorpresa di David è morto, la più recente produzione di Babilonia Teatri. Attrice, performer e danzatrice dai molti colori, in scena interpreta la fragile e feroce Iris. Forse sarebbe meglio dire: la fa esplodere, presentando dolenti e ironici brandelli di ciò che una volta si sarebbe definito “personaggio”.

In questo senso, rende un servizio inappuntabile alle parole di Enrico Castellani: “Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare”, come direbbe Gilles Deleuze.

A RISCHIO MANIERISMO?

“La lingua è sempre quella frammentata del quasi-rap che li ha resi celebri, il punto di vista quello tenero e feroce dal cuore della provincia”, scrive Roberta Ferraresi su Doppiozero in merito a questo spettacolo, che gli autori presentano come un “racconto di cinque morti che parlano. Della loro vita e della loro morte. Sono cinque epitaffi di una moderna Spoon River”.

Neon a forma di cuore, palloni da basket, canzoni pop-rock, eterodirezione con voce off amplificata, frammenti di autobiografie quotidiane, messa in evidenza del dispositivo, elenchi di frasi brevi, termini in dialetto veneto, giustapposizione di lunghi monologhi detti con voce stentorea, riferimenti alla televisione e al cinema, testi detti in sincrono: in David è morto tornaNo molti stilemi del gruppo. Fin forse a rischiare, a tratti, un certo manierismo.

REALISMO A FRAMMENTI

In questo spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale e da Emilia Romagna Teatro Fondazione, rispetto al passato la narrazione appare più unitaria, il racconto maggiormente disteso.

Permane prioritario, a guidare le scelte registiche e interpretative, quel “principio di realtà” che da sempre caratterizza il loro lavoro. “La parola chiave è il realismo”, suggerisce la storica del teatro Cristina Valenti nell’introduzione ad Almanacco, il volume edito da Titivillus che nel 2013 ha raccolto vari testi dell’ensemble, “ai cui canoni si ispirano a ben vedere le tecniche della scrittura, a partire dall’abbondanza di dettagli e dal potere evocativo di scorci e frammenti di realtà. Realismo delle immagini, del linguaggio, delle prospettive”.

A tal proposito sarà interessante verificare quale direzione prenderà in futuro il rapporto con il reale di Babilonia Teatri: se si andrà verso una rassicurante conferma di stili e tematiche o se si sceglierà di esplorare vie profondamente altre. Staremo a vedere.

Che colore ha la morte? Rosso. Rosso sangue, rosso cuore, rosso ketchup, rosso mutande di Natale, rosso naso da clown. Il rosso è il colore della passione, però in David è morto di Babilonia Teatri è il colore della Passione: con la P maiuscola, senza passione. Il colore di una morte, di un suicidio, anzi di più suicidi e più morti. Il colore di una sonata di fantasmi di cui all’inizio si intravede a malapena la trama, e che solo alla fine ci si presenta nella più nuda e cruda realtà di una Spoon River, dalle cui tombe i protagonisti ci hanno raccontato in lunghe lapidi-monologhi il loro distacco dalla vita. Un distacco lancinante e siderale, che si declina nella fredda aritmetica cosmica del suicida David e che rimbalza su questa incomprensibile terra vista dalla luna, da una luna casta diva che risuona nell’aria di Bellini cantata mentre i protagonisti si agitano nel buio. Questa terra schiacciata sotto un cielo silenzioso verso cui gli uomini guardano e da cui non sono guardati, “underneath a sky that’s ever falling down, down, down” (Brian Eno), pieno di quelle Nuvole che sono l’orgoglio di una pop-rock star fallita e che ricordano le nuvole sulla copertina del romanzo Infinite Jest di David Foster Wallace, un altro David morto suicida pochi anni fa. Eppure quel rosso lasciava presagire tutt’altro: “Love’s the greatest thing”, ripetono i Blur nella canzone Tender all’inizio dello spettacolo. Il fatto è che David, forse, non avrebbe scelto Tender per raccontare la sua storia, anche se in fondo alla scena giganteggia un luminoso cuore rosso. Con la sua fredda mania per i numeri e l’ordine e la classificazione, e con quello che dovrà rivelare, David non avrebbe saputo che farci con la tenerezza, le emozioni, le passioni di quella canzone. Tender, ci dice una voce off, è la canzone preferita di Filippo, l’attore che sta dando corpo e voce a David. E allora, che ci sta a fare nella storia di David? Lo spettacolo è appena all’inizio e già un primo depistaggio ci introduce nei meandri di una narrazione insidiosa.

Babilonia Teatri segna ancora una volta una tappa importante nel proprio percorso, dimostrando come il proprio “stile”, apparentemente molto omogeneo, sia in realtà un universo aperto per la ricerca e la sperimentazione di forme. Inutile fare esempi: quasi tutti i loro spettacoli hanno esplorato i confini di quella personalissima lingua teatrale (ben più complessa e profonda di un semplice “teatro pop”), spostandoli sempre un po’ più in là (ma senza andamenti “evolutivi”), o ritornando ad approfondire zone feconde. David è morto affronta per la prima volta in maniera drammaturgicamente articolata e matura la narrazione di una vera e propria storia, mettendo in scena veri e propri personaggi in relazione tra loro, secondo un procedimento che richiama alla lontana il precedente Pop star, partito dal testo di Mark O’Rowe Terminus, la cui impronta riecheggia qui in alcune pratiche, come nella relazione tra personaggi monologanti, che a poco a poco si svela all’interno di un contesto narrativo che lentamente si rivela come ‘postumo’. Ma qui il testo è ben lontano dal barocchismo visionario di O’Rowe e si cala con maggior tensione – e maggior fedeltà, semmai, alla limpida scrittura poetica e da confessione di Edgar Lee Masters – in un’esplorazione delle dinamiche di rapporto con la realtà. Anzi, di fuga dalla realtà. Perché la storia, per certi versi grottesca, che stiamo ascoltando non è altro che l’acido poema di una terra desolata dove le azioni sono conseguenza del nulla, come una risposta alla noia o all’anaffettività o alla diseducazione ai rapporti. E questa risposta è la morte ricercata e voluta, quasi come fosse la naturale conseguenza di una vita quotidiana già ‘mortale’ di per sé.

“Le ore prima di un suicidio sono fatte di enorme presunzione ed egocentrismo”, scriveva l’altro David suicida in Infinite Jest, ma qui sembrano ore fatte di rabbia e di vuoto, quasi un gesto di vendetta, come quello raccontato da un’altra compagnia veneta, i Fratelli Dalla Via, che in Mio figlio era come un padre per me aveva messo a punto una fenomenologia grottesca del suicidio filiale in chiave anti-genitoriale, come un bizzarro dispetto, in realtà come un urlo disperato di richiesta d’amore. E’ Filippo/David a dire all’inizio che David si è suicidato, inaugurando la dettagliata confessione collettiva di una famiglia intera (sorella, madre, padre: tutti già morti, dunque fantasmi di esistenze vacue), risucchiata da un gesto che presenta non motivazioni, ma solo il fenomeno. Fenomeno incomprensibile, come ogni suicidio adolescente, come quello della ragazzina di 13 anni che si è impiccata pochi mesi fa, alla fine di settembre, nel giorno del suo compleanno, scrivendo sul suo diario “Morirò con il sorriso sulle labbra”. E’ accaduto nel veronese, a una manciata di chilometri dalla casa dove ha sede Babilonia Teatri, ma poteva accadere ovunque, come accade ovunque, e come adesso accade anche lì, sul palcoscenico, dove David racconta la sua morte col sorriso sulle labbra. Un sorriso che non esprime sentimenti, che anzi li nasconde: la pura meccanica del gesto cela le motivazioni e le emozioni e ci restituisce una gelida geografia della famiglia e delle relazioni, in cui i protagonisti sono incapaci di provare qualcosa, o meglio sono incapaci di riconoscere ciò che provano e perciò di esprimerlo. Del resto, la madre cerca di nascondere la verità del suicidio del figlio, non per pietas ma per perbenismo, così come il padre decide di non volerla nascondere, non per pietas ma per tardivo rimorso.

David è morto entra affilato negli organi vitali e mortiferi della famiglia. Negli anni del Family Day, della retorica sulla famiglia tradizionale, dell’esplosione e moltiplicazione della famiglia, negli anni in cui gli stessi Enrico Castellani e Valeria Raimondi, anime e corpi di Babilonia Teatri, ci hanno raccontato la nascita e la crescita della loro famiglia reale e le inevitabili interrogazioni sul significato della genitorialità, David è morto ritorna al bersaglio ‘autobiografistico’ della responsabilità di padri e madri nei confronti di nuove vite e future morti. Abbiamo visto il figlio nella Pancia (2010) della madre, poi neonato in The end (2010-11) e in Maledetta primavera (2012), bambino e pre-adolescente in Lolita (2013) e Jesus (2014), e ora lo vediamo grande: “Non ve lo potete neanche immaginare cosa vuol dire avere un figlio. Amarlo e non comprenderlo. C’è un bambino. Poi un ragazzo. Poi un uomo che vive con te. Nella tua stessa casa. Fino a tre anni ha succhiato le tette a tua moglie. Non sai chi è”, dice il padre nel suo monologo. Nessuno sa chi sia davvero l’altro: dalle parole di ciascuno emerge l’ignoranza reciproca, perfino i genitori che, dopo una vita passata insieme, si guardano come fosse la prima volta inciampando una nelle braccia dell’altro. E qual è il legame che unisce i due fratelli? Il ragazzo ossessionato dai numeri, che seppellisce gatti come faraoni, e sta rinchiuso nella sua felpina con cappuccio come un irrequieto adolescente alieno alla Gus van Sant, e programma il suo suicidio con freddezza e con il senso di vendetta per un padre percepito come assente? E la ragazza ossessionata da un raggelante manicheismo gastronomico, per il quale il mondo si divide in vegetariani e carnivori o in chi fa la colazione col dolce e col salato, e che sembra aver ceduto a una bulimia sessuale senza freni per colmare un’assenza profonda? Anche lei si suicida, il giorno dopo quello di David, a metà tra la perfidia nei confronti dei genitori e la dichiarazione d’amore e vicinanza verso il fratello, il cui ricordo più intenso è di lui portato dalla corrente, by the river (Brian Eno, ancora). “Siamo liberi – dice David – L’estremo sacrificio è roba per pochi. Gente eletta”. Piccole anime, cantava Faust’O snocciolando il catalogo dei suicidi eccellenti: “qualcuno dice che è l’umidità… / ma quando il cuore non ti basta mai…”, e qui l’umidità non sta solo nel fiume che trascina David, ma anche dentro quel suo cuore che continua a illuminare di rosso la scena, tanto grande e tanto vuoto.

Le lapidi-monologo si succedono: prima David, poi la sorella Iris. Poi la madre e il padre, che parlano in simbiosi: piccoli cori a due, in uno spiazzamento prospettico che è quello dei figli, i quali – appunto – percepiscono i genitori in una duplice unitarietà, come un mostro a due teste, un Giano in cui le due facce che guardano all’opposto sono condannate a una vita siamese. Il quadretto di questa devastata Family Night è ricomposto così: il racconto dei figli morti suicidi, il lutto ambiguo (diplofonico, mi verrebbe da dire) dei genitori che termina con un ulteriore gesto di suicidio. Lo spettacolo poteva terminare qui. Ma la vera storia è un’altra.

A scendere in campo è ora Alex, il divo pop-rock che si compiace dei giudizi espressi dai critici sulla sua arte: “Ha saputo conciliare il pop che sempre l’ha contraddistinto e l’impegno che piace a noi”. Sembra di leggere la recensione a uno spettacolo di Babilonia Teatri, e non a caso. Il suo è un intervento apparentemente meta-narrativo: interrompe il quadretto dei ragazzi suicidi e dei genitori in lutto per dire di essere l’autore. Riconosciamo che la voce fuori campo che ci ha accompagnato finora spiegandoci alcuni passaggi e presentando personaggi e interpreti era la sua. Il pubblico ha più di un momento di spaesamento: un signore seduto vicino a me si avvicina all’orecchio della moglie e sussurra con sicurezza: “Ah, vedi, quello è l’autore!”. Nella tradizione del nuovo teatro è facile riconoscere le stranezze del vero autore che interrompe lo spettacolo per svelare i propri rovelli creativi e coinvolgere direttamente lo spettatore; più difficile è riconoscere un trucco antico, quello di un attore che finge di essere altro. E così Alex racconta di essere l’autore della storia a cui stavamo assistendo, e poi di essere un cantante, introducendoci ai più astrusi e ridicoli segreti della sua arte, quella che ha dato vita al suo successo planetario Nuvole, grazie a un importuno clown dottore di nome Birillo, e poi quella che ha segnato l’impasse creativo fino all’illuminazione grazie alla commessa di un negozio di materassi. Questa storia delirante ci porta altrove, ci travolge ipnoticamente, ci obbliga a seguire la figura stralunata di Alex, calamitante come il Frank T.J. Mackey interpretato da Tom Cruise in Magnolia: spiritato sotto l’occhio di bue che annulla il contesto e lo erge a divo imbonitore.

Lo spettacolo sul suicidio – cioè sul distacco dalla vita che sancisce il distacco nella vita, cioè le distanze e le assuefazioni nelle relazioni – compie una virata rocambolesca e incongrua diventando uno spettacolo sulla creazione. Inutile chiedersi cos’hanno a che fare Alex, Birillo e la commessa di materassi con il tema del suicidio: semmai, il distacco di cui si parla è quello della creazione artistica. Il rapporto cialtrone che Alex stabilisce tra il suo “capolavoro” Nuvole e la morte della madre (e ancora una volta ritorna la connessione forte tra l’idea di genitorialità e di morte), grazie all’insofferenza provata per uno stupido clown, è il riflesso di un equivoco corto circuito che fotografa grottescamente l’azione artistica: casualità, cinismo e un facile sentimentalismo d’accatto sfornano il successo. Non c’è aderenza dell’artista alla propria creazione: il distacco raccontato nella prima parte dello spettacolo assume qui una forma diversa ma ugualmente mortifera, cioè il distacco dell’artista dalla propria creazione, e in fin dei conti – anche qui – dalla vita. Non è un caso che, alla ricerca del bis, Alex attraversi come un forsennato altre latitudini e altre opere d’arte, enumerate in un catalogo surreale, cercando disperatamente ispirazione fuori di sé anziché dentro di sé. Finché, ancora una volta, una storia assurda: quella della commessa che vende materassi, che porta Alex nuovamente all’insofferenza e, attraverso di essa, alla nuova rivelazione per una nuova canzone di successo dal titolo David è morto. Canzone che viene ora eseguita da tutti, e durante la quale Alex… si suicida; certo, più come uno spavaldo Johnny Ace che come un tormentato Luigi Tenco o un ribelle Kurt Cobain. E qui i due percorsi dello spettacolo si fondono ancor più inattesi, proponendo un ulteriore scarto che riduce il deus ex machina Alex a mera comparsa, e riportandoci solidamente al tema principale. Che tuttavia ci appare ora ben diverso, filtrato da una lente straniante che impone il distacco del sospetto proprio nel momento più toccante.

Rapidamente si ricuciono i fili di questa matassa ingenuamente ingarbugliata come i fili fragili e facili di Spoon River. Avevamo quattro attori che impersonavano una famiglia algidamente disperata dal sapore di American Beauty, poi l’autore della storia, poi una pop-rock band che canta David è morto. E ora ci troviamo l’autore suicida e i quattro attori ormai completamente appiattiti sui loro personaggi, perché non c’è più la voce fuori campo a definirne il distacco interpretativo. In quale storia siamo capitati? Adesso il padre e la madre, incorniciati come gli innamorati di Peynet dal grande cuore rosso di David sempre illuminato, si rivelano per quel che sono, non più all’unisono, ma marcando le loro identità: lui è proprio quel Birillo e lei è proprio quella materassaia di cui aveva parlato Alex. Dunque sono loro le persone che avevano ispirato Alex, oppure sono in realtà creature inventate dallo stesso Alex, che proseguono oltre la morte del loro autore? Il clown che fa ridere i malati e la commessa che fa riposare chi è stanco nascondono nei loro mestieri ‘angelici’ l’obiettivo dell’anestesia dalla realtà più dura. Un’altra forma di distacco. Il quadretto familiare è ora completo, e la storia viene svelata: tutti i personaggi sono accomunati dalla condizione di parlare post mortem. Li ritroviamo così tutti e cinque, con il loro corpo-lapide (a mo’ di bestemmia: “Ogni lapide è una bestemmia”, aveva detto poco prima il padre) accanto alla propria croce del cimitero che invade ora la scena, con il grande cuore rosso di David che non campeggia più in alto ma giace anch’esso tra le croci, sotto l’effettaccio volutamente kitsch di una nevicata triste su cui si spalma la nenia iniziale di Tender. Stavolta non è più la canzone preferita di Filippo, ma la pietra tombale di una condizione di straniamento dalla vita e dalle passioni che ha attraversato l’intero spettacolo: “Lord, I need to find / someone who can heal my mind”. Ma la luna tace, il cielo è lontano e Dio è stato azzerato da tutte le lapidi, cioè da tutti i morti, che hanno invaso la terra:

“riposi all’ombra di una lapide di marmo

tu e tutti i tuoi complici

pensa

prima di adagiarti all’ombra di una lapide di marmo pensa

pensa che quel marmo era montagna

che quella montagna era mondo

che quel mondo era dio”.

«E cosa racconteremo, ai figli che non avremo, di questi cazzo di anni zero?». C’era qualcuno – non ricordo esattamente chi – che aveva ripreso questo verso delle Luci della centrale elettrica per affrontare i teatri italiani degli anni Duemila, il loro avvento dirompente, la biodiversità così cangiante da essere difficile da raccontare per intero, la loro successiva caduta o almeno normalizzazione. È un modo un po’ brusco di iniziare un articolo, ma è proprio questo il punto: tornare a chiedersi cos’è successo, cos’eravamo e cosa siamo, cos’abbiamo fatto in questi anni, com’è andata e come sta andando. Un argomento forse un po’ démodé per l’agenda critica d’attualità, ma per molti versi è un tema strutturale e ancora pressante; anche magari per rispondere ad altri interrogativi più “sul pezzo”, ma in generale per far fronte a una strana abitudine del nostro teatro e in realtà anche del Paese che è quella di dimenticare tutto in un soffio per guardare – invece che avanti – altrove.

(…) Il momento, è vero, non è certo quello del fermento vivace di dieci anni fa. Però ci sono degli eventi e fenomeni di cui è necessario tenere conto, per cercare di leggere la strada che quelle compagnie hanno compiuto, il loro percorso dalla nouvelle vague emergente all’attuale maturità. (…)

C’è da menzionare inoltre la collaborazione di altre compagnie con i nuovi giganti del sistema teatrale, i Teatri Nazionali: consolidando rapporti già saggiati in precedenza, l’ultimo lavoro di Babilonia Teatri è una co-produzione fra Veneto e Ert, mentre quest’ultimo sostiene il nuovo spettacolo di Menoventi, al debutto fra poche settimane. Come notava Lorenzo Donati in un articolo di qualche giorno fa, è importante vedere programmati in stagione i Babilonia a fianco ai soliti grandi nomi “da stabile”; ed è altrettanto interessante che ci sia qualcuna di queste grosse strutture che dedica un’attenzione non episodica né strumentale a quella generazione della scena che proprio in questa fase avrebbe necessità di una solidità diversa (e però forse c’è il rischio, qui, se i rapporti non saranno modulati a dovere, di vedere la forma-compagnia dissolversi nelle maglie dei grandi enti di produzione, per via dell’impostazione dei nuovi criteri del Fus). (…)

Dal punto di vista estetico: linguaggi che crescono

Dal punto di vista estetico – complice anche forse le diverse condizioni produttive – si assiste a una diffusa maturazione delle intuizioni con cui i Teatri Duemila si erano posti all’attenzione nazionale: sembra che ciascuno abbia approfondito e verificato il proprio percorso; e questo proprio in quel tempo, fra la fine del primo decennio del nuovo millennio e l’inizio del secondo, che molti avevano letto come un momento di stasi.

“Cosa racconteremo di questi anni Zero”? Che quella dei teatri degli anni Duemila sia stata soltanto un’ondata, una parentesi, un momento? Che la spinta progettuale di quella – a suo tempo chiamata – “generazione” sia andata esaurendosi con il crescere dell’età e/o la possibilità o meno della stabilità? O che ci sia sotto qualcosa di diverso, che ha a che fare con altri fattori, per esempio la sanità generale del sistema o anche la buona salute del nostro stesso sguardo?

Una risposta chiara è nel nuovo lavoro dei Babilonia, David è morto: Valeria Raimondi e Enrico Castellani, un tempo performer di riferimento di tutti i loro spettacoli – dopo diversi tentativi – sono usciti di scena, spostandosi in regia. Il lavoro è affidato a quattro attori, che portano sul palco il linguaggio ormai cifra della compagnia. La lingua è sempre quella frammentata del quasi-rap che li ha resi celebri, il punto di vista quello tenero e feroce dal cuore della provincia, il riferimento alla logica delle comunicazioni di massa (che qui si arricchiscono del registro dei talent show); ma – nonostante la difficoltà data da alcuni momenti di fragilità di interpretazione al debutto, che probabilmente si risolveranno nelle date successive con il consolidarsi del gruppo –, la scrittura di Babilonia, facendosi corale, raggiunge punte di efficacia drammaturgica nuove: esplode polverizzandosi nella pluralità di presenza, visione, azione dei quattro diversi interpreti, concedendo molto più margine alle potenzialità di immedesimazione e straniamento (nelle performance a due dei primi lavori spesso prevaleva quest’ultimo polo). (…)

Uno sguardo al passato per rivedere il presente

Quindi, almeno dal punto di vista estetico, la (presunta) stasi si convertirebbe in diversi casi nello sviluppo del percorso precedente e addirittura nell’emersione di qualche nuovo orizzonte di lavoro. Però non è solo questo il punto e il David dei Babilonia può dare un’altra e sostanziale risposta alla domanda su cos’è successo ai nostri Nuovi Teatri degli anni Zero: questo spettacolo sul suicidio di un adolescente (e non solo) a un certo punto si blocca con l’entrata in scena della voce off che ha accompagnato fino a quel momento lo svolgersi della messinscena; si presumerebbe il regista e invece no – sia per chi conosce la compagnia, sia per il resto del pubblico, a cui l’attore rivela invece di essere un cantante (accumulando ironicamente ancora più scatole cinesi in quel gioco fra realtà e finzione). È un cantante che è giunto all’estremo gesto perché, dopo l’inaspettato successo di una sua hit, con già proposte di dischi e contratti e tournée nazionali, si è reso conto di essere incapace di ripetere quel miracolo artistico, di sottostare alle pretese incalzanti delle major, di soddisfare le aspettative voraci del pubblico. Niente di strano, se non fosse che la canzone si intitola proprio come lo spettacolo, David è morto.

Qui il discorso si sposta dal piano estetico a quello politico-culturale: senza alcuna forzatura rispetto all’ultima fatica dei Babilonia – che merita senza dubbio, in altra sede, un’analisi diretta e più approfondita –, è difficile non intravvedere in quelle parole, nel modo in cui sono poste in scena, un minimo dello sfondo produttivo che riguarda anche il teatro.

Nel valutare l’attuale fase dei Teatri Duemila non si può dimenticare il contesto di iper-produzione e iper-visibilità bulimica che ne ha accompagnato gli esordi, e anche le mutate condizioni materiali successive, con un momento di crisi che si è consolidato in modo permanente dentro e fuori dai teatri. E di conseguenza sarebbe opportuno non guardare allo stato attuale di presunta stasi come un momento conclusivo del gran fermento di dieci anni fa, assecondando la fame di quella “tradizione del nuovo” che ha segnato tanto Novecento fino ai suoi esiti più recenti. Ascesa, consacrazione, declino, e poi oblio, fine della storia (in senso stretto e senso lato), sono gli step che hanno scandito le diverse “ondate” della ricerca italiana, alla fine quasi tutte poi assorbite dal sistema rispetto a cui si proponevano come alternativa. Qui non si sa ancora come andrà a finire, ma è importante non dimenticare ancora una volta il passato recente, per capire meglio il presente e forse provare a immaginare un po’ di futuro. Per il momento, personalmente penso che dovremmo essere per certi versi contenti di aver superato la fase del “boom” dei teatri Duemila, la bulimia, l’ansia di nuovo e dunque di consumo, dei giovani a tutti i costi, degli studi, delle maratone dei festival. Quello che è certo è che per portare a maturazione un rinnovamento di linguaggio ci vuole tempo, un tempo disteso, un’attenzione e una cura, e condizioni di lavoro dignitose. I risultati – certo meno travolgenti e incalzanti, ma decisamente di diversa compiutezza – che quei ex-nuovi ed ex-giovani gruppi hanno espresso negli ultimi mesi stanno lì a testimoniarlo.

Tra sogno e insulto, tv e dialetti, Babilonia Teatri ha più volte innescato, nei propri spettacoli, accumuli verbali attorno a un tema dato, con un incedere enciclopedico che acquista spessore grazie a ritmi pulp e dissacrazione dei codici. Questa modalità ultra-pop si è sposata con temi anche tragici, consegnandoci una disanima sulla morte, una ricerca del Cristo perduto o l’esplosione dell’adolescenza tra social e angoscia. Con l’ombra del suicidio si chiudeva una performance agonistica come “Lolita”, con la bulimia nichilista di una teenager in cerca d’uscita dall’accumulo d’esistere. Nella luce, rossa e folgorante, di un doppio suicidio di adolescenti si apre il nuovo spettacolo di Babilonia Teatri, “David è morto”, una produzione Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale ed Emilia Romagna Teatro Fondazione che, dopo il debutto veneto, arriva all’Arena del Sole dal 9 al 21 febbraio. Valeria Raimondi ed Enrico Castellani firmano questo nuovo spettacolo, creato in mesi di lavoro e condivisione con Chiara Bersani, Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel ed Emanuela Villagrossi (cinque attori reclutati nella rete con provini su ‘You Tube’) e con le musiche originali di Cabeki.

In alcuni spettacoli i Babilonia hanno scelto, dopo un lungo processo di semplificazione, di realizzare un monologo. Come somma di monologhi si configura anche ‘David è morto’, affidato a cinque attori (più la voce-didascalia fuori campo di Enrico Castellani, che esplicita la distanza tra attori e personaggi) impegnati a narrare il suicidio di un ragazzo, David, presto imitato dalla sorella Iris e da altri giovani di un tranquillo paese di provincia. Nato con la volontà di dare vita a una storia, partendo così da un testo più che da un tema/figura da sviluppare, lo spettacolo punta all’esplorazione di un’intera collettività: ma proprio l’ambizione alla coralità evidenzia alcune criticità. Dopo i primi due monologhi iniziali dedicati ai fratelli suicidi, vero cuore emozionale dello spettacolo, la tensione drammatica e la felicità poetica calano. Da un lato la volontà di articolare le cinque voci/vicende si manifesta con alcune forzature nell’intreccio; dall’altro la recitazione (plasmata su quella di Valeria Raimondi ed Enrico Castellani, con una inconfondibile texture di pause, crescendo e frasi piane) toglie spazio agli attori e respiro ai personaggi. Gli interpreti, tutti capaci di un percorso scenico coerente e ben sostenuto, rimangono troppo invischiati in questa sorta di clonazione che crea più omogeneità che unità (con l’eccezione di Chiara Bersani / Iris, capace di travalicare, con esplosioni di energia e tensione, la cornice imposta).

Non siamo, come prospettato nelle note di regia, in una sorta di ‘Spoon River’ padana. Il monologo dei Babilonia, con l’accumulo di materiali, sembra tendere per natura più all’universale (in prima persona) che al plurale: per questo la dimensione ‘corale’ dell’opera resta inferiore alla somma dei bellissimi, singoli pezzi, mostrando i vuoti drammaturgici quando, dal racconto, si arriva all’interazione tra personaggi (mediata da azioni, simboli o oggetti). Se le perplessità di fronte al risultato finale sono legate alla rappresentazione della complessità, rimangono (e sono una parte considerevole dello spettacolo) molti motivi di interesse per lo spettacolo.

La scena è una perfetta cassa di risonanza per il testo, spoglia, con pochi oggetti enfatici e iper-connotati (cuori al neon, croci, chitarre elettriche e soprattutto fiocchi, fiocchi di figli neonati o di neve), con attori inseguiti da un occhio di bue o che invadono la platea e con musiche drammaturgicamente fondanti. Nel testo, la lingua è sicura, decisa e precisa, capace di fondere la coazione all’accumulo (le inutili nozioni apprese da ognuno di noi nel corso degli studi, i titoli di opere famose che NON possono più ispirarci) e istanti illuminati da metafore (come quelle legate al sangue). Ma soprattutto ci rimangono due ritratti di ragazzi che, tra invettiva ed elegia, vogliono rimanere unici, lontani e diversi dai genitori, rabbiosamente schierati dalla parte della carne e dei carnivori, con un cuore capace di luce e un sangue che non ha paura di uscire, decisi a buttare in faccia al mondo la loro unica eredità: un abbraccio.

Personaggi sbozzati fra presentazione e rappresentazione, manipolati, quasi circuiti da attori che per intervalli s’immergono in un gorgo di azioni tragiche e se ne tengono però anche a distanza, per poterle lucidamente raccontare. Quelle sulla scena di David è morto di Babilonia Teatri sono presenze che ondeggiano fra adesione e distanza, fra dramma e narrazione. Una voce off informa che l’attore che vedremo farà David; riconosciamo il timbro del regista Enrico Castellani, autore dello spettacolo insieme a Valeria Raimondi. Nello spazio, corde a vista e quinte abbassate fanno da contrappunto ai velluti e ai lampadari del Teatro Goldoni di Venezia. La sala del debutto veneziano è piena: abiti eleganti, pellicce, gioielli, messe in piega, cravatte, profumi acri.

Entra David con una palla da basket, sul fondo si staglia un cuore di lucine rosse, immagine kitsch che pervade lo spazio visivo. David racconta di un gatto amato e perduto, dei suoi abiti rossi indossati per infastidire il padre, sottolinea che quando moriamo diventiamo numeri, cifre che rimandano a pratiche da smaltire. In piedi, monocorde, con la voce tesa ma ferma, il racconto di David (Filippo Quezel) è una soggettiva di un suicidio: un punteruolo conficcato nel petto, mentre poco prima i Blur cantavano Tender, «l’amore è la cosa più grande che abbiamo».

I mugolii di Britney Spears si diffondono nell’aria, una macchinina elettrica per bambini entra in scena guidata da Iris (Chiara Bersani, attrice disabile, magnetica). Col microfono si rivolge a noi sfrontata, cantilena le vocali come una vocalist, racconta di essere stata cacciata da un qualche convitto, dopo che «mi ero scopata mezza caserma», ma aveva rifiutato il maresciallo. Un occhio di bue la scontorna nel buio, perimetrando una presenza perturbante. Non le possiamo staccare gli occhi di dosso. Anche Iris racconta, parla del padre che la picchiava, introduce «quella notte», quando al risveglio ha visto David, suo fratello morto. Iris si è impiccata e ora riflette, divaga disquisendo dei carnivori e degli erbivori, mettendoci in guardia su questi ultimi. Ha visto il sangue del fratello, ha pensato al Ketchup, ora urla «Ketchup!» più e più volte, interdetta perché la colazione col salato proprio non le va a genio.

Le note di regia dei Babilonia Teatri descrivono David è morto come un’attuale Spoon River, con i personaggi che si raccontano post-mortem, in un delirio da abbandono che conduce ogni destino a un inevitabile scacco. A noi pare di stare di fronte al dispiegarsi “epico” di un incubo noir contemporaneo, in cui ci si accorge che la sostanza stessa della verità si sfalda nei passaggi fra realtà e rappresentazione. Ci aspettiamo uno svelamento, o almeno delle risposte: perché David si è ucciso? E Iris? Il meccanismo dello spettacolo smonta il noir per dare la parola al morto, emerge però una descrizione ambientale non troppo distante dalle province dei tristissimi personaggi di talune serie statunitensi (Fargo, la seconda stagione di True Detective). Gradualmente si fa strada la sensazione che nulla stringeremo, e che dal tragico nulla s’impari, se cerchiamo una spiegazione esterna a noi. La tensione emotiva si raffredda, il climax non arriverà, resteremo nell’asepsi di un Caos Calmo.

Entrano i genitori (Alessio Piazza, Emanuela Villagrossi), parlano all’unisono ma la madre è la prima a narrare. Prima di tutto inventano una versione dei fatti socialmente accettabile. David è morto, ma di arresto cardiaco. David è morto, amen. Prende la parola il padre: «Amen un cazzo, troppo facile. Andate in pace, la pace non c’è. Come faccio io a vivere?» Parte il pianoforte di Brian Eno, vengono alla mente altri dolori rappresentati al cinema (La stanza del figlio), i genitori prendono una corda e se la portano al collo. Poi entra Alex.

Alex (Emiliano Brioschi) è un cantante, la sua hit Nuvole è stata in testa alle classifiche. Racconta della sua vena creativa che si è persa, descrive l’incontro in ascensore con un clown dottore, poi di una donna che vende materassi, dell’inesausto tentativo della venditrice di convincerlo, insistendo su molle, lattice, guanciali, rivestimenti, reti. Guardando il tg dentro al negozio arriva l’illuminazione: David è morto! Quello sarebbe stata la sua nuova canzone, forse l’ultima, la definitiva, quella che avrebbe chiuso il cerchio per sublimare il dolore in rappresentazione, la sofferenza in denaro. Ma, anche qui, senza nessuna catarsi possibile. Dalla sofferenza non s’impara, al massimo la si fa fruttare (anche solo per chiudere un arco drammaturgico, con una nota che ci è parsa lievemente autoironica: il medico clown e la materassaia sono padre e madre di David e Iris). Chitarre elettriche sono calate sul palco, il brano David è morto dei Cabeki (brano orginale) prende il largo: «David è morto, controluce posso dirlo, è un’alba scura e non fa giorno. Alex si punta un’arma alla tempia».

Il padre e la madre salgono su una scala al centro del palco. La madre dice di essersi strappata il cuore. Alex aveva affermato di odiare i buoni. La madre invoca la possibilità di ricominciare tutto da capo. David aveva chiesto un nemico contro cui combattere, «voglio un obiettivo, voglio le mie torri gemelle», quasi ricalcando il delirio da “stato di minorità” che descrive Daniele Giglioli nell’omonimo libro, reazione a una società che ci ha tolto la possibilità di agire, decidere, rischiare proprio mentre ci mette a confronto con personaggi televisivi e cinematografici che in ogni secondo decidono rischiano agiscono. Nel finale cadono fiocchi di neve, sullo sfascio, nello scacco, e salgono le note della canzone dell’inizio: «Come on, Come on, Come on, Love’s the greatest thing, That we have, I’m waiting for that feeling, I’m Waiting for that feeling, Waiting for that feeling to come».

David è morto sembra riprendere i fili di un discorso della compagnia divenuto ultimamente carsico. Dopo gli affondi “a tema” sulla morte e la sua idea (The End, 2011), su Gesù e la sua rappresentazione (Jesus, 2014), lavori che ci erano parsi volere fare i conti con la disamina di concetti, con l’esposizione, l’analisi e lo smontaggio di temi da “ridurre” nell’ora di uno spettacolo teatrale; dopo incontri, aperture, collaborazioni con gli orizzonti della giovinezza in Lolita, 2013, e con La casa dei risvegli di Bologna per uno spettacolo con i risvegliati dal coma in Pinocchio, 2012; i Babilonia qui ritrovano il filo del resoconto della vita di provincia, della sua assurdità, della ferocia mascherata da materassi a molle, come un po’ avveniva in Pop star e Pornobboy (entrambi del 2009). David è morto è frutto della coproduzione di due teatri nazionali, quello veneto e quello emiliano-romagnolo. I cinque interpreti sono stati scelti con un provino “alla Babilonia”, dove si chiedeva di postare un video su YouTube, al quale sono seguite giornate di lavoro insieme (come ci hanno raccontato lo scorso anno in una intervista). Non di sola regia, non di sola messa in scena di testi del passato devono vivere dunque i Teatri Nazionali, e fa un certo effetto vedere sulla facciata del Goldoni i visi di Castellani e Raimondi al fianco di quello di Accorsi. Fa un certo effetto vedere programmato David è morto nella stagione “regolare”, non nelle stagioni di serie b o c del contemporaneo. Un plauso dunque al lavoro della direzione del Teatro Stabile del Veneto.

David è morto non consola, raffredda la temperatura, abbassa l’enfasi, pur preservando la spettacolarità. Non conforta, non mostra parabole dalle quali apprendere, non ha valore edificante. Non spiega, anzi divaga, così la narrazione dei personaggi s’inceppa proprio di fronte alla nostra ansia di senso, insiste su dettagli la cui sostanza si approssima al non-sense, all’enumerazione per assonanza fonetica, quasi al gioco linguistico (Alex e la sua ricerca di ispirazione che diviene lista infinita lista di nomi di opere).

Oggi il teatro può provocare una scossa dal torpore. Potrebbe incrinare i nostri sonni, destarci di fronte alle poche certezze che abbiamo. Lì potremmo vedere una realtà dai tratti sempre meno nitidi, e grazie alle domande del teatro essere invitati a decidere se vogliamo vederci più chiaro, sapendo che il fallimento è l’orizzonte più probabile. Questo ci pare riescano a fare i Babilonia. David è morto è una presa di coscienza che avviene dopo aver esalato l’ultimo respiro, un luogo dal quale solo il teatro può guardare, approssimandosi alle nostre malcelate disperazioni, riflettendo un’immagine che rivela chi veramente siamo, noi che ci sentiamo buoni.

La storia raccontata da Babilonia Teatri in David è morto  racchiude nel suo insieme varie tematiche di cui oggi si sente spesso parlare con urgenza, soprattutto tra i più o meno giovani di un’ampia fascia di età, che va dall’adolescenza ai trent’anni: il conflitto generazionale – con molti genitori e colleghi di quella generazione a cavallo tra un sistema di valori, che qualche decennio fa poteva essere considerato incrollabile, e la sua messa in discussione, sotto vari aspetti, negli anni successivi; l’ansia di dover aderire ai vari stereotipi o modelli del vivere che ci circondano; il vuoto di vita – non sapere che cosa essere, che cosa fare…

La storia di David e della sua famiglia può far riflettere su questo e molto altro, grazie a un testo ben scritto, dotato dell’ironia tagliente, tipicamente Babilonia, che lascia spesso sfumare il confine tra risata e dramma.

Lo stile recitativo proposto da Babilonia Teatri ha sempre una marcia interessante, riuscendo a scavare un canale di comunicazione molto diretto con il pubblico. Questa cifra, che ha determinato il loro successo, è una scelta tecnica davvero efficace e di impatto, tuttavia rischia di risultare stancante, se si ferma a rimanere un come, senza essere declinata in un cosa. Tale qualità di declamazione porta probabilmente gli attori a confrontarsi con un’impegnativa sfida tecnica; ma è proprio questa modalità del dire, che rischia di aggiungere, a una sana urgenza, un sottofondo di aggressività perenne. Di tingere tutto lo spettacolo di un solo colore, facendo sfiorare alla composizione la dimensione del teatro sociale.

Pur mantenendosi coerenti allo stile Babilonia, sarà possibile dare altre sfumature emotive alla parola? Senza questa possibilità di declinare la scelta tecnica, temo si tenda non tanto a un dialogo con il pubblico, quanto a un monologo un po’ imposto, creando, per qualcuno degli spettatori, quello strano effetto dell’animatore di villaggio, che cerca di costringere i turisti al torneo di pallavolo.

Evitando quest’effetto, la comunicazione del messaggio poetico risulterebbe ancora più efficace.

La stessa cosa si può dire sull’uso della musica, strumento spesso emotivamente utile, ma leggermente abusato in termini di ricorrenza e volumi.

David. David è morto. E con lui è morta una generazione, con lui muore un popolo ridotto nella secca di una desolata, insensibile, decadenza. David è morto nelle gocce dei tranquillanti raccolte da terra col dito per non sprecarle, nell’alito marcio della solitudine, nelle parole rimaste dietro un vetro appannato, inascoltate, nell’inchiostro colato di lettere scritte e mai spedite. Potrei continuare a lungo, ma la verità, l’unica possibile, è che David è morto. E tutto questo nello spettacolo di Babilonia Teatri, dal titolo omonimo, non c’è. O meglio: questo è tutto ciò che proprio non c’è sul palco del Teatro Goldoni di Venezia, nel loro apparato scenico, dove invece s’innalza un cuore enorme appeso nel vuoto, proprio in mezzo, rosso pulsante al neon, esile eppure certo di avere un posto esatto, nitido, in cui battere. David lo indica, lì nel petto tra due arterie portanti, nell’istante prima di trafiggerlo con un coltello e farlo esplodere in mille rivoli, mille fiumi che non troveranno mare.

Sappiamo tutto, molto presto. Una voce off informa che la vita di David è terminata, che è l’attore a prestargli il corpo e la voce, che l’azione compiuta sul palco – palleggia con un pallone da basket al ritmo della sua canzone preferita: Tender dei Blur – l’attore l’ha imparata preparando lo spettacolo. Eppure, di lì a poco, con facilità Filippo (Quezel) diventa David, nessuno degli spettatori potrebbe dire il contrario, ognuno fa proprio il patto di condiscendenza sensibile che trasforma la realtà in rappresentazione, la proposta artistica in dibattito, la messa in scena in esercizio di verità. E proprio in virtù di questo invito alla crisi della forma, il lavoro di Babilonia Teatri – Valeria Raimondi ed Enrico Castellani – si misura con una destrutturazione del racconto, quasi scarnificato dalla scena, tradito ogni volta che inizia a costruirsi una dipendenza di causa-effetto, negato perché risponda all’isolamento esistenziale dei cinque personaggi, incapaci di trovare una motivazione non solo per vivere, anche per morire.

Babilonia Teatri

Il testo, pur non dei migliori firmati da Castellani e nato assieme agli attori nel tempo di gestazione, è tuttavia carico di un’urgenza intima, di una domanda inevasa. Esso scorre in avanti ma anche a ritroso dalla morte di David, scavando nelle dinamiche familiari le ragioni di un gesto scellerato, eppure ragioni non se ne trovano facilmente; lo stesso accade per il suicidio della sorella Iris (Chiara Bersani), impiccata appena il giorno successivo, ancor più fosca la vicenda che porterà a morire i genitori dei due ragazzi (Alessio Piazza e Emanuela Villagrossi), tempo dopo, così come quella che ucciderà Alex il re del pop (Emiliano Brioschi), cantore della morte di David e che concluderà sul palco la propria vita con un colpo alla testa. La ragione di queste mancate ragioni, di un altrettanto mancato racconto, è da rintracciarsi nella metaforizzazione del suicidio, attraverso cui questi uomini perduti incarnano la rinuncia a una civiltà postuma, priva di un senso che ne indirizzi l’evoluzione.

Se dunque le parole scombinano i piani di una facile e già digerita fruibilità, l’impianto visivo si compone di apparizioni – il fiocco azzurro e il fiocco rosa tra le braccia dei genitori, le chitarre calate dall’alto, le povere croci di legno disperse per il palco, la neve joyciana che cade sui vivi e sui morti, senza che se ne sappia, forse, differenza – pochi elementi simbolici che diano improvvisa connotazione ai frammenti testuali, stimolando il canale emotivo quel tanto che basti ad avvertire privazione, un momento dopo.

L’ottima intuizione del Teatro Stabile del Veneto – Teatro Nazionale, diretto con acume e conoscenza territoriale da Massimo Ongaro, colta nei meandri della riforma ministeriale che impedisce di fatto coproduzioni tra compagnie e Nazionali, trova il modo di produrre insieme a Emilia Romagna Teatro questo progetto di Babilonia Teatri, di fatto “assimilando” il lavoro al sistema produttivo permesso e investendo, con il progetto Incubatore produttivo, risorse su una compagnia del territorio ma di rilevanza nazionale. Se un processo “interpretativo” di tale portata è possibile in Veneto, necessario sia analizzato e proposto in altri territori di residenza di un nazionale, come ad esempio Roma o Napoli, là dove vi sia un movimento artistico che stia cercando un canale concesso solo a fatica e dove vi sia un teatro nazionale disposto a prendersi in carico questo rischio, senza nascondersi dietro la, presunta, imposizione ministeriale.

Quando si spengono le luci sul cimitero dei vivi morenti, non è chiaro se sia la vita di ognuno appesa a quel cuore installato nel semibuio e ora steso ad abbracciare la croce di David, oppure sia il cuore stesso appeso a chi non riesce a gestire la propria vita. Se sia esso il mezzo o il fine. Oppure entrambi. Ma forse non importa. Perché, pur ridotto a cornice dell’esistenza, continua in silenzio a battere. E battersi. Per tanto ancora.

Il nuovo lavoro dei Babilonia Teatri è andato in scena al Teatro Verdi di Padova – Teatro Stabile del Veneto dal 2 al 4 dicembre. Li seguo da anni ormai. Amati sin da subito, appena vidi Made in Italy (2007) per il loro modo irriverente di calcare la scena, non tanto col corpo quanto con le parole. Parole non recitate, parole decantate, parole che mettono in scena situazioni, cose, persone, vita e morte.

Con DAVID E’ MORTO i Babilonia scelgono (come da un po’ di tempo a questa parte) di stare dietro la scena, di dirigerla “dall’alto”. Cinque gli attori che adottano il loro stile e lo fanno proprio, se lo cucino addosso come un vestito della loro taglia. David è morto, si è suicidato, sembra che si sia tolto la vita quasi per ripicca ed è lui, da morto, che ci introduce alla vicenda che ci fa conoscere i personaggi e  frammento dopo frammento si ricostruiscono i tasselli, e le morti si susseguono: la sorella, Iris, i genitori e Alex che si raccontano.

Una famiglia che si distrugge e un cantante che ha perso l’ispirazione e proprio nella vicenda di David ritrova la scintilla che gli permette di ritornare alla scena ancora come il numero uno:

Due anni fa ero il numero uno.

Il primo.

E il primo sarei rimasto.

Il mondo di divide in due.

i numeri uno e gli altri.

io non diventerò un numero.

Io rimarrò il primo.

Il numero uno. […] Alex

Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Filippo Quezel, Emanuela Villagrossi e Chiara Bersani, sono gli attori che portano in scena lo spettacolo e sono stati selezionati nel modo più “social” di questo periodo, attraverso Facebook, dove i candidati hanno postato i loro video di presentazione per il casting. I Babilonia sono riusciti in soli due mesi a plasmarli, a portarli nel loro mondo rendendoli forti e incisivi.

Anche la scena rimane fedele agli elementi cardini della compagnia, palco vuoto, con cantille in bella vista, macchinista in scena (marchio di “fabbrica”), elemento dominante e centrale il grande cuore centrale rosso in un ambiente scarno e freddo.

I Babilonia scelgono di ribaltare il punto di vista classico, lo fanno attraverso la prima voce che narra (quella del protagonista) gli eventi già successi, cosi che i personaggi si raccontino dopo la morte, dopo il dramma. Questo permette loro di essere spudoratamente sinceri, incuranti delle conseguenze ed estremamente lucidi e feroci nelle parole.

Un lavoro che contiene una drammaturgia potente, presente e importante. Il filo conduttore di una morte che colpisce come dei birilli tutte le persone coinvolte nella vicenda.

E’ in questi momenti che ci si rende conto di come gli esseri umani siano legati tra di loro da dei fili invisibili alle volte impercettibili e, se ne cade uno, cadono successivamente tutti quanti.

Chi è andato va a vedere David è morto difficilmente lo farà con uno spettacolo del fu Luca de Filippo. Forse il gruppo veronese non ha più il seguito da anni fa, ma nemmeno gli sparuti addetti ai lavori, snob intellettuali alla ricerca del pelo nell’uovo in un sistema di vetrinismi e parassiti.

È indubbio che i Babilonia Teatri abbiano spostato l’asse del teatro. Più di altri gruppi. E questo è il primo dato innegabile. Il secondo è che i Babilonia sono riusciti a riempire l’involucro dei gruppi nati negli anni Novanta con segni decisamente diversi. In quegli anni nascevano Motus, Teatrino Clandestino, gli Artefatti, Lemming, Teatro Aperto, gruppi con un approccio iniziale spesso autobiografico-analitico-esistenziale. Dimensione personale, quasi di coppia, che c’è nei Babilonia ma senza quella personalistica. Certo vorremmo che andassero oltre la loro recitazione che ci violenta e obbliga ad ascoltarli, ma è come chiedere Peter Brook di non usare il Tatami.

I Babilonia sono sopravvissuti alla moda di se stessi e ora tentano una drammaturgia con un testo più articolato dei comandamenti. Da tempo non hanno nemmeno l’ossessione a occupare spazi non convenzionali. I Babilonia Teatri possono andare tanto anche nei teatri borghesi, anche se sono nati in uno spazio decisamente off. Detto questo quali sono i segni che si sommano, a volte si sovraccaricano sul palco? Segni Pop dicono loro, aldilà della musica energetica che spacca i timpani e copre qualche magagna nel ritmo. Ed è vero che il grande cuore appeso ci richiama l’universo di Jeff Khoons (o di Baldessarri) ma le croci con i cuori sono quelle di un San Martino del Carso di Ungaretti, magari viste anche in una delle manifestazioni contro i morti sulle strade.

E allora? Il postmoderno è questo mescolarsi di alto e basso, certamente. Ma almeno i Babilonia lo fanno con struggente ironia e questo, come era già accaduto in Pinocchio, li salva dal facile pietismo di chi porta in scena “corpi diversi”. Qui una ragazza ci richiama l’universo di Pippo del Bono, ma il regista ligure c’entra solo perché anche qui vediamo la poesia di piccole fatiche. L’impronta è Babilonia Teatri perché quel declamato stentoreo ora è anche di Filippo Quezel (il David del titolo) che recita il suo epitaffio di Spoon River innescando le associazioni estenuanti care al duo Remondi-Castellani. La strada è difficile, più che nei precedenti lavori. Questa volta manca l’aggancio emotivo, l’appeal alla pancia.

Usano immagini (anche forti come i cappi che pendono dal soffitto) però siamo al secondo livello di segni, quelli che vanno subito decodificati, collegati agli altri segni sulla scena. Il tempo per riflettere c’è perché le lapidi viventi non si affastellano e non si accumulano per iperboli, anzi. Qualche lentezza o lungaggine può essere tagliata nelle successive repliche. Chiara Bersani sulla sua automobilina racconta come pure Emiliano Brioschi, Alessio Piazza, Emanuela Villagrossi di un quotidiano cinico e squallido come l’umanità di David Forest Wallace. Più vera però e non perché ogni tanto si accendono le luci in sala o perché si chiuda pure il sipario prima del tempo, ma piuttosto perché i corpi vivono di un testo che non conoscono.

Lo interpretano, alienati. La voce off (onnisciente) di Enrico Castellani annuncia quel che vediamo. Epica nell’epica. In scena si racconta di suicidi, fuori scena si presentano gli attori-personaggi, che stanno lì come gli attori di Strehler nel suo Arlecchino servitor di due padroni. È l’unico modo oggi per indagare la tragedia: farcela semplicemente vedere a posteriori. Senza lacrime e, in futuro, senza urla.

David si è ammazzato. Il giorno dopo si è tolta la vita la sorella Iris, poi un musicista e i due genitori. Ma solo David conta, perché è il primo e diviene un simbolo, paragonabile a una piramide egizia da colmare di tributi. Tutti noi ricordiamo la prima grande sofferenza dell’infanzia, il primo gattino sepolto. Gli altri, venuti dopo, formano una catena indistinta.

Possiede forza deflagrante “David è morto” di Valeria Raimondi e Enrico Castellani, ovvero Babilonia Teatri: è la vis drammatica insita nel messaggio non univoco, leggibile in modi diversi, spesso diametralmente opposti ma tutti congrui, dal relativismo quasi pirandelliano. È un inno alla morte o alla vita? Alla sconfitta o alla speranza? Al dolore o all’amore? Niente e tutto questo. Lo spettacolo è un punto interrogativo, grande e luminoso quanto il cuore al neon che campeggia sullo sfondo.

Un pizzico dell’antologia di Spoon River e un richiamo a Giulietta e Romeo nel finale, quando l’amore, inespresso in vita, si protende verso l’alto per sublimarsi nella morte che lo rende eterno, parificando disperazione e gioia. Edgar Lee Masters e Shakespeare sono solo ombre, citate più per rispetto che non per aver costituito spunti sostanziali in un’opera la cui originalità è abbacinante.

Quotidianamente ci chiediamo se continuare nel tentativo di decriptare le idiosincrasie del mondo, o se abbandonarlo per trovare, nella morte, la nostra vera natura. I gesti dei suicidi sono eclatanti, nel palesare il disagio del vivere. David (dall’impetuosità adolescenziale di Filippo Quezel) si taglia le vene, in verticale e non in orizzontale perché coloro che non sono nemmeno capaci di uccidersi meritano solo disprezzo. Il sangue gli cola sul corpo e lo ricopre di rosso. La sorella Iris (Chiara Bersani, commovente nella dimensione tragica) aspira con una siringa la sua rossa linfa per poi spruzzarla sulle pareti di casa, fino al dissanguamento. Alex il musicista (dall’anima rock di Emiliano Brioschi) stramazza al suolo colpito dalle vibrazioni di una chitarra elettrica rossa: “Sono un kamikaze. Voglio le mie torri gemelle: costruitemele!”

Un j’accuse verso i genitori, intesi come un’unica entità, parlante all’unisono e all’unisono incruentemente impiccatasi. Il sangue è mezzo punitivo nei confronti del padre (cui Alessio Piazza ha conferito tormento introspettivo) che odia pervicacemente il colore rosso. Un papà che ha ecceduto nel correggere il figlio fino ad averlo cambiato e intende ora rendergli tardiva accettazione. La madre (cinta da lucida follia da Emanuela Villagrossi) macchinalmente ricompone al desco il cadavere del ragazzo e poi cucina per lui. Una donna che lo strazio non cancella nella sua essenza e che immagina di riporre nel freezer il cuore, accanto a un barattolo di sperma: “Avrò i capelli bianchi, ma mi rimarrà la forza di tornare a generare. Poi dormirò infiniti sonni”. È l’ultimo grido prima che sulla selva di croci, anonimi anelli di una catena, scenda una fitta nevicata.

“Il giorno del Giudizio, Dio guarderà giù e vedrà un deserto disseminato di lapidi di marmo”, così inizierà la rinascita. La coltre immacolata, purificatrice e pacificatrice, ricopre persone e cose, ovatta progressivamente il grido assordante dei pensieri (musiche drammaturgicamente rilevanti di Cabeki), ingloba il grande cuore rosso che riposa al suolo al centro del cimitero. Forse nel camposanto, come in un campo arato e seminato, sotto la neve sta germogliando nuova vita.