CALCINCULO
Calcinculo è uno spettacolo dove le parole prendono la forma della musica. Dove la musica prende la forma delle parole.
Uno spettacolo in cui musica e teatro si contaminano e dialogano in modo incessante e vertiginoso.
Viviamo un tempo ossessivo che le parole e le immagini non riescono più a raccontare da sole, la musica arriva in soccorso come una medicina e o una miccia esplosiva.
Cantami o diva dell’ira di oggi.
Cantiamo sulle macerie.
Mangiamo fast, lavoriamo fast, viviamo fast, ma sogniamo un’isola felice che sia slow.
Mettiamo il pannolone per non dover interrompere partite planetarie contro avversari lontani mille miglia da noi che un satellite elegge a nostri amici ed avversari.
Accudiamo bambole iperrealiste che non piangono e di notte non si svegliano, ma che hanno le fattezze di bambini veri.
Abbiamo smesso di andare a votare, ma chiediamo che i diritti e i doveri dei nostri cani, gatti, canarini e tartarughe e criceti e conigli e porcellini d’india e pesci rossi siano sanciti dalla legge e che il tribunale si occupi della loro dignità e del rispetto nei loro confronti.
Abbiamo deciso che è arcaico esprimere un’opinione all’interno di una collettività negli ambiti che ci competono, ma commentiamo qualunque notizia schermati da uno schermo.
Calcinculo è uno spettacolo che vuole fotografare il nostro oggi.
Le sue perversioni e le sue fughe da se stesso.
La sua incapacità di immaginare un futuro, di sognarlo, di tendere verso un’ideale, di credere.
Con questo spettacolo intendiamo raccontare il mondo che ci circonda con il nostro sguardo tagliente, dolente ed ironico.
Calcinculo incarna ed esprime la nostra visione divergente del panorama mondo a partire dal nostro micromondo per arrivare ad essere specchio di scenari che ci appaiono continuamente vicinissimi e lontanissimi assieme.
Le contraddizioni che osserviamo sono prima di tutto le nostre.
Attorno a noi tutto sembra così veloce da non riuscire a trattenere niente.
Sembriamo dinosauri sopravvissuti alle glaciazioni.
Realtà e finzione si sovrappongono: spesso non è chiaro dove finisca la vita reale e dove inizi la sua rappresentazione e viceversa.
CREDITI
DEBUTTO 30 agosto 2018 OPERAESTATE FESTIVAL VENETO (Bassano del Grappa)
di e con Enrico Castellani e Valeria Raimondi
e con Luca Scotton
musiche Lorenzo Scuda
fonico Luca Scapellato
direzione di scena Luca Scotton
produzione Babilonia Teatri, La Piccionaia
coproduzione Operaestate Festival Veneto
scene Babilonia Teatri
foto di scena Eleonora Cavallo
produzione 2018
si ringraziano il Coro Ana Valli Grandi e Cuore Husky rescue
“Proprio vero. Ciò che distingue Babilonia Teatri, e ne fa una delle punte d’eccellenza della più avanzata ricerca teatrale italiana, è lo straordinario mélange di provocazione concettuale, violenza espressiva e freddezza scientifica con cui il gruppo veronese aggredisce il coacervo inestricabile delle idiozie, delle menzogne, delle vigliaccherie, dei paradossi e delle iperboli che costituiscono il nostro tempo.”
RASSEGNA STAMPA
Calcinculo all’ipocrisia e al tradimento nell’eco di Gaber
Controscena.net, Enrico Fiore
http://www.controscena.net/enricofiore2/?p=4251
Proprio vero. Ciò che distingue Babilonia Teatri, e ne fa una delle punte d’eccellenza della più avanzata ricerca teatrale italiana, è lo straordinario mélange di provocazione concettuale, violenza espressiva e freddezza scientifica con cui il gruppo veronese aggredisce il coacervo inestricabile delle idiozie, delle menzogne, delle vigliaccherie, dei paradossi e delle iperboli che costituiscono il nostro tempo. E ne offre l’ennesima dimostrazione «Calcinculo», lo spettacolo che Enrico Castellani e Valeria Raimondi hanno presentato in anteprima nazionale nell’ambito della XIX edizione del festival «Primavera dei Teatri».
Si tratta, per quanto riguarda la forma, di uno spettacolo atipico rispetto al percorso precedente di Babilonia Teatri: poiché ha l’aspetto di un musical, che alterna al testo di Castellani ben sei canzoni. Ma, s’intende, la sostanza è sempre la stessa. E tanto per fornire subito un esempio del mélange di cui sopra, ecco che cosa segue all’annuncio «Ho deciso di smettere di fare teatro».
Castellani, dopo aver constatato che si è «creato un nuovo umanesimo», «un’idea di fratellanza e di condivisione» basata sul principio: «io non condivido la tua idea ma sono pronto a toglierti la vita per convincerti della mia», snocciola questa professione di fede, il mantra dell’orrore che s’è fatto quotidianità: «Credo che i terroristi islamici siano dei grandi uomini di spettacolo. Non credo in nessun modo al loro successo politico né culturale, ma credo che siano dei grandi registi, dei grandi attori, dei grandi organizzatori di eventi, dei grandi uffici stampa. Sono indubbiamente i migliori. Non capisco perché i cartelloni delle stagioni teatrali e dei festival non siano integralmente dedicati a loro, perché tutti i progetti territoriali non siano affidati a loro, perché non siano affidati a loro il lavoro nelle scuole e con l’università e i progetti speciali».
Avete capito a che cosa mirava l’annuncio «Ho deciso di smettere di fare teatro», contro che cosa era diretto? Se non l’avete ancora capito, provvede ad aiutarvi il passo successivo: «Io non vedo l’ora che mi venga affidata la direzione di un teatro, perché so già come farlo funzionare, come farlo deflagrare, come farlo esplodere. Si dice che nessuno più va a teatro, si dice che nessuno più parla di teatro. Ma del mio si parlerà. Il mio ufficio stampa lo darò in mano all’Isis, tutti i miei collaboratori saranno membri dell’Isis. Il mio teatro sarà una cellula dell’Isis, io sarò uno di loro».
Si potrebbe immaginare una più corrosiva (e tanto più efficace perché, come si vede, divertentissima) polemica contro l’astenia del teatro cosiddetto «ufficiale», quello definito da un aggettivo, stabile, che troppo spesso significa immobile?
Ma, naturalmente, la denuncia del sempre più evidente e generalizzato tradimento della poetica e delle motivazioni profonde del teatro non rimane chiusa in sé, diventa – e qui si determina il valore dello spettacolo di cui parliamo – l’innesco per quella che concerne ben altri e decisivi tradimenti.
La canzone intitolata «Comunista» a un certo punto dice: «Che Guevara appeso al muro col nastro adesivo / in camera mia ero un sovversivo / un rivoluzionario / io ero il vertice della protesta / rivoluzione nella mia testa». E poi: «Ma quando lo scotch è ingiallito / anche il mio credo è appassito / la gravità ha vinto la colla / ho detto addio alla mia bolla / il mio è un rosso relativo / è un Campari nell’aperitivo / un Negroni a colazione / il disincanto è la mia costellazione».
Non si poteva rendere meglio (voglio dire con più rabbia e, insieme, più dolente partecipazione) il dramma del ridursi dell’ideologia prima a una pura illusione privata e quindi a una semplice faccenda di colori inscritta, allusivamente, nel consumismo alcoolico. Torna in mente il finale di «Qualcuno era comunista» di Gaber: con l’immagine del «gabbiano senza più neanche l’intenzione del volo perché ormai il sogno si è rattrappito».
Bisogna ritrovare l’innocenza, un’innocenza antica: sembra essere questo, alla fin fine, l’appello politico (ma è pure un messaggio fraterno) che trasmette lo spettacolo di Babilonia Teatri. Stanno, quell’appello e quel messaggio, nel rammarico manifestato da «Unità di misura», l’ultima canzone: «Non ho più mani per dire terra / non ho più bussole per dire dio / non più occhi per dire bello / non più un corpo per dire io».
Tutto questo, poi, si esprime in sede di messinscena con alcune invenzioni straordinariamente felici e pregnanti: la paura dell’«esterno» trova riscontro in un monologo che Castellani pronuncia circondato da estintori (l’ossessione della sicurezza) e sullo sfondo delle bandiere dell’antica Repubblica Veneta «cooptate» dalla Lega (la strumentalizzazione della storia); la metamorfosi animalesca degli umani acquista la forma di una sfilata di campioni delle varie razze canine; e, per concludere con gli esempi, la necessità di ritrovare una sana e genuina comunione d’intenti sfocia nella comparsa, al termine, di un coro di vecchi alpini.
Inutile, a questo punto, dire dell’efficacia con cui si muovono, in quanto interpreti, gli stessi Enrico Castellani e Valeria Raimondi, adeguatamente affiancati, a tratti, dal monumentale direttore di scena Luca Scotton nelle vesti di attore e persino ballerino. Piuttosto, è il caso di sottolineare il coraggio che Babilonia Teatri manifesta ancora una volta proponendo uno spettacolo del genere in perfetta coincidenza con l’avvento del governo populista che ci ritroviamo.
Primavera dei Teatri cala i suoi tre assi: Dammacco, Babilonia, Latini
Recensito.net, Tommaso Chimenti
https://www.recensito.net/teatro/primavera-dei-teatri-castrovillari-resoconto.html
Coraggiosi, di rottura e iconoclasti sono, restano i Babilonia che tornano all’antica protesta frontale molto punk e soprattutto stavolta molto rock. Già dal titolo, quel “Calcinculo” che sa d’infanzia, di adolescenza, di gioventù e Luna Park, di altalena e lanciarsi in alto, in cielo per prendere quella catenella che scendeva dalle nuvole. Oppure i calci in culo, non più altalena a bocche aperte e trasognanti ma le repressioni, le costrizioni, le punizioni di questo mondo, di questa società (“Calcinculo al presente immobile e inevitabile”). Calcinculo è più che altro un concerto vero e proprio e i Babilonia ci dimostrano attraverso la forma leggera, vengono in mente i vari talent show, da Amici a X Factor fino a Italian’s Got Talent, di poter far passare contenuti densi e pregni, di lotta, di protesta, di ribellione. Ci sono le bandiere del Veneto con il Leone (loro che hanno vinto il Leone d’Argento alla Biennale!), ci sono gli estintori con i quali creare una difesa, un fortino all’allarme sociale, alle paure inscenate e alimentate da giornali e tv. E c’è agitazione e angoscia nelle loro parole pur se sciorinate da versi e strofe, c’è “La mia depressione che fa orario continuato, ha chiesto un part time e non gliel’hanno dato”. Tormentoni: “Devo fare il tagliando ai miei ideali, senza manutenzione non c’è rivoluzione” danno il termometro e la scala dei valori di queste montagne russe tra l’impostazione leggera e la profondità del pensiero che ne sta alla base. E non hanno paura del giudizio e sono sfrontati e aizzano il pubblico tirandogli addosso i cartoncini di plastica per un giro al calcinculo della vita, oppure lo lisciano con una passerella di cani campioni di bellezza da esposizione (“Il mio vicino ha voce solo per bestemmiare, solo per chiamare il cane”). Fanno entrare una ventina di alpini per il coro finale fino all’eccessiva esaltazione, meramente come manifestazione estetica di spettacolo planetario, delle regie di morte dell’Isis che sopravanzano qualsiasi finzione scenica di cinema, teatro o fantasia (per aver detto che “L’11 settembre è stata la più grande opera d’arte mai esistita” il famoso pianista tedesco Karlheinz Stockhausen è stato emarginato dalla comunità artistica e accademica ed è morto nel disonore), inneggiando alla distruzione della Scala o del Colosseo. Speriamo che Salvini non se ne accorga, altrimenti ci aspettano picchettaggi all’entrata dei teatri come quelli che colpirono (e provocarono una nuova enorme ondata di pubblicità mondiale) Romeo Castellucci in occasione del suo “Sul concetto di volto nel figlio di Dio”. Noi possiamo solo dire che vogliamo subito il cd delle canzoni con i testi di Enrico Castellani e la voce di Valeria Raimondi: farebbe le scarpe alle varie Michielin o Fedez.
Primavera dei Teatri 2018. A caccia di stile
KLP, di Mario Bianchi
http://www.klpteatro.it/castrovillari-primavera-dei-teatri-2018-debutti
La parola ‘stile’ viene solitamente declinata, nel vocabolario della lingua italiana, come “insieme delle caratteristiche formali proprie di un’opera artistica, di un autore, di una scuola, di un’epoca”.
E’ in questo modo che, accingendoci a parlare di Primavera dei Teatri, festival delle arti sceniche che si svolge a Castrovillari, in Calabria, ormai da 19 anni, abbiamo posto sotto osservazione tre nuovi spettacoli (ancora in fase di rodaggio) in cui appare comunque ben riconoscibile lo stile della compagnia, del gruppo, dell’autore: parliamo di “Calcinculo” di Babilonia Teatri, “Overload” di Teatro Sotterraneo e “Sei. E dunque, perché si fa meraviglia di noi?,” di Roberto Latini / Fortebraccio Teatro.
Tre stili dunque, tre marchi di fabbrica, che immediatamente rimandano ad altrettanti precisi modi di stare in scena e di relazionarsi con il pubblico.
In attesa del debutto di agosto, “Calcinculo”, in questa anteprima calabrese, vede di nuovo sul palco, insieme dopo una pausa, Enrico Castellani e Valeria Raimondi con l’inseparabile muta, energica e fattiva presenza di Luca Scotton. Ma è come se questa pausa non ci sia mai stata, perché ritroviamo in scena un modo di procedere espressivo che ben conosciamo. Anche se non del tutto…
Qui, infatti, la parola ripetuta che tratteggiava il disincanto per un mondo (im)perfetto, cifra inconfondibile della compagnia, viene plasmata soprattutto in canzoni, appositamente scritte sulle note di Lorenzo Scuda, formando uno spettacolo in cui musica e teatro si contaminano e dialogano in modo ininterrotto e vorticoso. Una musica rock violenta, cantata da Valeria, mentre le bandiere con il Leone di San Marco navigano con il vento in poppa.
Sono canzoni che esprimono un disagio senza possibilità di riscatto: le speranze di una volta sono definitivamente scomparse. “Devo fare il tagliando ai miei ideali, senza manutenzione non c’è rivoluzione”: il mondo che parrebbe farci felice è in via di estinzione e soprattutto non ci riconosciamo negli altri. “Calcinculo ai prati”, “non è la mia guerra, non è la mia terra, non è la mia lingua”… L’unica risoluzione, invocando l’Isis come panacea di tutti questi mali, è distruggere ogni cosa, anche perché ora “mi serve un metro per misurare la realtà, sono rimasto senza unità”.
Sono queste le parole che intonano le voci degli alpini del coro Ana Valli Grandi di San Pietro di Legnago e degli iscritti al Centro di aggregazione sociale anziani A. Varcasia di Castrovillari.
Sono loro a imprimere la cifra pop allo spettacolo, insieme alla sfilata dei cani del Gruppo cinofilo Rendese, contraltare dei nani e del funerale di Pavarotti di “Made in Italy”.
Slabbrato e frastagliato come il loro spettacolo cult, il “Calcinculo” di Babilonia non vomita più addosso al Veneto ma su un’umanità intera, rea di aver perso un senso consapevole del proprio stare nel mondo.
Quello che è andato in scena alla Primavera dei Teatri di Castrovillari
di Graziano Graziani pubblicato mercoledì, 13 giugno 2018
http://www.minimaetmoralia.it/wp/quello-andato-scena-alla-primavera-dei-teatri-castrovillari/
In «Calcinculo» di Babilonia Teatri i fantasmi sono quelli del nostro presente post-ideologico, con una schiera di bandiere venete in parata sullo sfondo della scena, appuntate su altrettanti estintori che evocano un incendio che non scoppia mai. Quale incendio? Quello delle nostre paure sempre più borghesi, sempre più legate alla lotta tra poveri e ricchi, al disprezzo dei secondi verso i primi (che sembra essere la matrice profonda del razzismo che serpeggia nel nostro paese e che trova un bacino fecondo nel profondo nord est, da dove proviene la compagnia di Enrico Castellani e Valeria Raimondi). Un uomo lascia un messaggio ai ladri per dirgli che la cassaforte è vuota; una ragazza che canta la sua canzone al microfono e poi in aria, sospesa su un seggiolino dei calcinculo; una sfilata di bellezza canina che sbeffeggia l’ossessione per l’estetica, unica possibile redenzione di una società oramai compiutamente a una sola dimensione. Babilonia Teatri in questo spettacolo ritrova la cifra più autentica e caratteristica del suo teatro, un lirismo fatto di paradossi, corrosivo perché come nei romanzi di Houellebecq non c’è un fuori possibile a questa deriva del mondo, ma non per questo completamente cinico: nella scrittura di Castellani-Raimondi c’è sempre e comunque uno sguardo compassionevole che, pur non essendo direttamente rivolto ai “mostri” che evocano in scena, lo è però verso la condizione umana. “Voglio la mia libertà”, cantano i caroselli sonori dello spettacolo, “voglio l’immortalità, la felicità”. Tra la tentazione del transumanesimo – che nel prossimo futuro potrebbe aumentare ulteriormente il divario tra “semi-dei” resi quasi immortali dalla tecnologia (i ricchissimi) e chi, umanissimo, non si potrà permettere simili orizzonti (quello che Morin chiamava il “mito della a-mortalità”) – e le possibili derive etiche e psicologiche di una simile estensione della vita in termini temporali e di possibilità (Yuval Noah Harari parla degli uomini del presente-futuro come divinità capricciose nel suo «Homo Deus»), c’è comunque qualcosa di umano che resta. Sia pure schiacciato dalle proprie paure e dalla propria impulsività sempre più infantile. Ed è in quella materia che pesca «Calcinculo» con il suo campionario pop, col suo linguaggio musicale da talent (che però un po’ scimmiotta anche l’indie) e in parte anche per questo centra il bersaglio: in fondo la scrittura dei Babilonia si è sempre collocata lì, nel crocevia semantico tra la canzone punk, il lirismo di certo rap e il profondo umanesimo del teatro.
Babilonia Teatri. L’ultimo raggiro di giostra
Teatroecritica By Simone Nebbia
21 giugno 2018
http://www.teatroecritica.net/2018/06/babilonia-teatri-lultimo-raggiro-di-giostra/
BABILONIA TEATRI IN ANTEPRIMA NAZIONALE CON CALCINCULO, SPECCHIO RIFLESSO DI UNA SOCIETÀ BRUTALIZZATA. DA PRIMAVERA DEI TEATRI XIX. RECENSIONE
Teatro. Ultimo avamposto di resistenza alla deriva di una società morente. Non è soltanto per la capacità di interrogarsi sul presente, non è per la volatilità – dunque la necessità di afferrare tutto nell’istante dell’accadere – di tale forma espressiva, il nodo qui è la domanda in trasparenza umana, la qualità della compresenza di palco e platea – noi e voi – all’interno di un contesto in cui potenziare l’intenzione dialettica, mettere sotto indagine l’evoluzione della società umana. Lo spirito guida dell’artista di teatro è la messa in discussione della vita in corso di svolgimento, non a consuntivo di un’esperienza ma nell’atto della sua trasformazione: il teatro resta in ogni caso una forma d’arte di avanguardia. Ed è in virtù di tale spirito che si riconoscono, primi tra gli uguali, artisti capaci di rappresentare, quindi interrogare, il mutamento. Tra di essi è il collettivo artistico di provenienza veronese Babilonia Teatri, fondato e formato da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, con Luca Scotton fin dall’origine, compagnia che dopo aver ricevuto il prestigioso Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2016, ha portato in anteprima nazionale a Primavera dei Teatri XIX di Castrovillari il nuovo Calcinculo.
Lo spazio scenico è, come spesso, ridotto a un’ossatura entro cui far stare pochi oggetti ma di presenza concreta, ineludibile. Enrico e Valeria, fin dagli esordi ormai più di dieci anni fa, insistono sull’essere Enrico e Valeria anche quando abitati da voci altre, non già da personaggi, ma da presenze interiori portatrici di un sentire collettivo. È una finta giostra, un finto luna park di gioia sfitta, di lumi a intermittenza, di pop corn e zucchero filato appiccicoso, quello messo in scena; è dunque un contesto ludico la società in cui Babilonia cerca di far apparire le contraddizioni che la ottenebrano, un raggiro efficace che lascia emergere un sorriso complice nel pubblico – come nel caso di una mostra canina per decretare la bellezza oggettiva, svolta sul serio in mezzo alla platea – proprio nel punto in cui emergono gli elementi più duri, proprio là dove la metafora del carosello circolare che deve afferrare il premio si gira all’inverso; e ride inconsapevole, la società educata, della propria decadenza e del sovvertimento in cui è ingannata.
Nella giostra che gira e raggira è prima di tutto la musica, le canzoni cantate da Valeria Raimondi che come una pop star da sagra di paese si carica il peso di quest’altro, di Paese, quello più grande e con la P maiuscola; è una musica (realizzata da Lorenzo Scuda) posticcia nei lineamenti ma concreta e profonda nella struttura portante, animata da testi graffianti e diretti ma molto densi sul piano lessicale, da un arrangiamento accurato ed estremizzato solo per esigenze di contenuto, ma essenziale e pulito nella forma primaria.
È poi nei monologhi della folla che emerge lo stato della società, ovvero la materia di riferimento dell’indagine artistica: la paura di essere aggrediti e il bisogno di protezione, la diffidenza verso la diversità, la sfiducia nella solidarietà, la continua lotta contro un nemico invisibile e a tutti i costi esterno rispetto al proprio gruppo umano, la difficoltà di difendere le proprie posizioni anche rispetto ai propri stessi valori esistenziali; ognuno di questi nuclei testuali è estremizzato attraverso un gioco del rovescio, la meccanica della sintesi espressiva si rivolge al contrario, al negativo, così da far apparire tutto per rifrazione, come “sentire sé stessi dire” cose che non si saprebbero ascoltare mai dalla propria bocca. È in questo svelamento della propria meschinità che Babilonia Teatri riesce a colpire con più forza, lacerando il velo dell’adesione per affondare nel cuore del proprio degrado civile.
In faccia. Dritto in faccia. La viscosità espositiva, ormai marchio di fabbrica del gruppo, se concede sul piano della forma a un’estetica d’insieme sviluppata solo in parte, è nei contenuti di concetto che fa emergere l’esclusività di un’offerta artistica. E, come in faccia, arrivano i “calcinculo”, l’aggiramento della violenza e delle ossessioni, là dove affiorano le cupe contraddizioni di un’umanità impaurita, raggrinzita su sé stessa, incapace di mettersi a fuoco ma, forse, capacissima di darsi fuoco. La giostra fa un giro alla volta, ma non smette mai. Ogni volta si ferma, ogni volta riparte da capo. Basta inserire sempre lo stesso gettone. E il giro ricomincia. Ma sempre più alto è il prezzo, sempre più in alto, il premio da afferrare.
La Repubblica, 3/6/2018 Rodolfo di Giammarco
… A un ciclone di musica, di canzoni, di bombole, di altalene, di paure, di algoritmi, di liturgie indecenti e di claim virali s’intona l’ultimo manifesto di Babilonia Teatri, Calcinculo di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, un teorema che racconta orrende intolleranze e spacci di visioni in un viaggio a ritroso anche proprio nella memoria di questo sodalizio, in attesa di nuove offese.
Il Manifesto, 15/09/2018 Mariateresa Surianello
Short Theatre, sconfinamenti di linguaggi e forme
…Al nostro orrendo presente attingono invece Babilonia Teatri con Calcinculo, una carrellata di asserzioni inacidite e perverse che la compagnia veronese mette in musica per tracimare fuori dai confini e colpire nuovi spettatori…
Pronti per un altro giro Calcinculo di Babilonia Teatri
paneacquaculture.net di Silvia Ferrari e Renzo Francabandera, 11 settembre 2018
https://paneacquaculture.net/2018/09/11/pronti-per-un-altro-giro-calcinculo-di-babilonia-teatri/
SF: Chi non conserva nella propria memoria corporea la sensazione infantile del canciculo? Quella giostra roteante di seggiolini volanti e noi bambini speranzosi e un po’ nauseati, tesi a recuperare la coda per poter vincere un altro giro gratuito?
Il titolo dell’ultimo spettacolo di Babilonia Teatri è una madeleine proustiana dal sapore d’infanzia: Calcinculo, appunto, un lavoro coprodotto da Babilonia, La Piccionaia e Opera Estate Festival, e andato in scena in debutto nazionale, dopo l’anteprima a Castrovillari, a Bassano Del Grappa all’interno di B-Motion. La sensazione dello spettatore alla fine dello spettacolo non è molto lontana dal quel girotondo di emozioni duplici che ci attraversavano nei luna park e nelle sagre di paese: divertimento e fastidio, euforia e inquietudine, capogiro e noia.
RF: Tu lo hai visto a Bassano, io a Castrovillari. Ed effettivamente è una girandola da cui si esce sicuramente non indifferenti. Perchè è un pastiche quantomeno originale, che cerca per la prima volta di dare al canone della lingua “babilonese” della loro grammatica spettacolare, una nuova declinazione. Non un cambio radicale per il duo veronese, quindi, ma certamente una variazione del canone piuttosto ardita, che apre la porta ad un rapporto con il pop, la vista pornografica, il blob comunicazionale del contemporaneo una lettura ulteriore. Sono elementi che in nuce erano già presenti nei loro lavori passati ma che qui si distaccano per fare comunque un salto verso qualcosa che ancora non riusciamo ad intuire ma di cui si abbozza la forma. Troppo pieno, troppo vuoto, non so dirlo, ma è una minestra che comunque non si assaggia spesso in giro.
SF: Si potrebbe dire, in effetti, che la duplicità di sentire sia l’elemento che attraversa questo spettacolo e che ne delinea il ritmo. A partire dal doppio che ontologicamente appartiene ai Babilonia (Enrico Castellani e Valeria Raimondi e la loro alternanza continua di voci), “Calcinculo” si costruisce attraverso l’altalena di parole parlate e cantate, di pop e rock, di leggerezza e lucidità di analisi. È un doppio che attraversa lo spettatore perché è un doppio che si materializza fisicamente sul palco. Lo strumento di narrazione è fluido, leggero, pop, si nutre della voce di Valeria, delle musiche, un po’ indie, un po’ pop, di Lorenzo Scuda, dell’apparente riconoscibile superficialità dei monologhi di Enrico Castellani, che si fa cittadino ossessionato dalla sicurezza, teatrante estremista attratto dall’Isis, presentatore di una sfilata di bellezza canina.
A questo impatto di superficie e forma, che ha il merito di invischiare lo spettatore, corrisponde però un’altrettanto viscosa densità di analisi dell’oggi, una lucidità tagliente, un lessico asciutto che, come la scenografia, composta da svolazzanti bandiere della Serenissima e estintori, rende essenziale lo sguardo dello spettatore. È davvero la cifra stilistica di questa compagnia, ma ora più che mai il gioco si fa efficace e il carosello trascina gli spettatori in un vortice di giri e raggiri, li scuote, frullandoli con le dinamiche umane della paura, dell’indifferenza, della solitudine, della depressione. E proprio quando quel frantumarsi umano si fa inevitabile e visibile, gli spettatori vengono attraversati da una una finta leggerezza che si fa risata, ma che è risata amara e un po’ stolta.
RF: E’ quello che ho pensato anche io. E’ tutto fastidiosissimo, eppure in questa pornografica fiera dell’obbrobrio, capire quale sia l’orrore maggiore è difficilissimo. Perchè il tutto è giocato a filo sul concetto di bello nell’orripilante estetica sociale piccolo borghese. I cani da sfilata con il pelo cotonato manco fossero Cher, identici ai loro padroni, entusiasti di una ribalta inaspettata. E il pubblico è lì a guardare la parata bestiale, con quello sfondo di estintori che ricorda un po’ The Wall dei Pink Floyd, e quell’orrore che prelude alla dittatura ma che arriva così, dolcemente, nei panni di un collie o di un fox terrier e del suo padrone, mentre il vicino di casa in bomber fosforescente fa proclami nazi dal suo giardinetto, che diventa poi quartiere, paese, città, nazione, continente.
SF: È una realtà sbriciolata quella raccontata dai Babilonia, la realtà di un oggi senza appartenenza (o con una falsa eccessiva appartenenza), di muri e nevrosi. Una realtà non più misurabile, come recita l’ultimo verso dello spettacolo (“mi serve un metro per misurare la realtà, sono rimasto senza unità”), cantato dalle voci del coro degli alpini che, nella loro profonda unità estetica e di sentire, rendono ancora più surreale quella perdita totale di compattezza. Calcinculo diventa, nel suo ritmo vorticoso, una cantilena rassicurante e inquietante, un viaggio fluido e sotterraneo attraverso leoni di San Marco che potrebbero volare via, e code da prendere per non smettere di giocare.
RF: Il lancio a pioggia sul pubblico di ticket di plastica con la scritta calcinculo, di quelli fosforescenti che danno al luna park, è proprio questo: “Toh, fatti un altro giro”. Uno spettacolo che ha dentro un pessimismo comico più che cosmico, una dichiarazione di resa crudele ma a schiena dritta, e che arriva persino a qualche inspiegabile forma di mostruosa bellezza, qui e là. Come la parata dei cani, appunto. Bella e agghiacciante. Una denuncia per atti osceni davanti al pubblico, ammesso che il pubblico non sia parimenti in concorso di colpa.
“Giù il gettone…Si va!”
CALCINCULO Babilonia Teatri critica la società e la sua ingannevole giostra a suon di musica
di Andrea Zangari
9/9/2018
Chi non ha mai provato l’ebbrezza di levare un braccio verso la posticcia coda di volpe sull’arcinota giostra? E non certo per il premio, ma per la gioia liberatoria della spinta calciata al compagno d’impresa, lanciato verso le stelle nel turbinio gipsy di luci tutt’intorno.
Un calcinculo verso l’alto, un confuso sfogo nazionalpopolare, un ritaglio d’anarchia irrilevante e solipsistico. Questo è il sapore, fra l’amaro e il caramellato, dell’ultimo pregevole lavoro di Babilonia Teatri. Un quadretto scioccante inscritto nel ludibrio rozzo d’una sagra para-politica, di un carosello populista piantato nel sottosuolo di paure che causticamente bruciano ogni ideale, che riduce i programmi a slogan, logorando i sogni.
Babilonia Teatri, Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2016, si conferma raffinata avanguardia di ricerca nel campo del “pop”.
“Calcinculo” è uno spettacolo dove le parole prendono la forma della musica, composta da Lorenzo Scuda e interpretata da Valeria Raimondi. La sua ottima vocalità viene prestata all’abilissima parodia dei moventi psico-sociali della nostrana musica pop e sedicente indie. Di per sé, il piacevole gioco “vale il biglietto”. Ma lo spettacolo è molto di più.
L’impianto drammaturgico alterna il canto ai vibrati contro-monologhi di Enrico Castellani, posseduti dalla rabbia spaurita delle più estreme periferie. Non solo né tanto quelle della povertà materiale, ma di quella emotiva e culturale. Imposte e nutrite da linguaggi mediatici proni alla politica del consenso, intessuti d’un consumismo impoetico veicolato nei meandri dell’inconscio, dove tutto ciò che è trovato è cancellato.
“Non ho più mani per dire terra / non ho più bussole per dire dio / non più occhi per dire bello / non più un corpo per dire io”.
Una sfilata di cani, veri e abbaianti, stigmatizza la perdita del senso umanistico del bello. Scarnificati, de-umanizzati così i confini della rappresentazione, non resta che smettere il teatro, come annuncia Enrico Castellani. Nulla è metaforicamente più rappresentabile come spettacolo, dopo lo spettacolo assoluto dell’ISIS, l’opera corale dell’atto terroristico ripreso da ogni angolazione.
Pregio più grande, oltre alla brillante mixata drammaturgica in equilibrio fra canzone e infilata monologante, che frulla temi come un vero calcinculo, è forse la naturalezza con cui Valeria Raimondi e Enrico Castellani portano questo nichilismo sulla scena. Il rischio poteva infatti essere il decalogo di cliché triti e ritriti, la lamentazione da vecchiarello di paese di fronte alla vita senza più ideali. L’assenza di retorica nella voce e nei corpi rende invece intima e leggera l’invettiva.
Il pregio più grande di “Calcinculo” è forse la naturalezza con cui Valeria Raimondi e Enrico Castellani portano questo nichilismo sulla scena.
È piccola ma significativa la presenza operante di Luca Scotton, che dirige la scena da un angolo del palco, poi irrompe, danza, e se ne va. Come quando alle sagre di paese qualcuno inizia a ballare davanti al palco, imbarazza i presenti. È il commento perfetto alla scena, il suo senso d’essere estraniato e popolare.
Babilonia Teatri, Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2016, si conferma raffinata avanguardia di ricerca nel campo del “pop”, ovvero di un linguaggio aperto all’ascolto del mondo nel suo non-aulico accatastarsi di voci, spesso stridenti, provocatorie, amare. Non un teatro come mondo, ma un mondo che può salvarsi nel teatro, mettere ordine e trovare un briciolo di senso, almeno estetico, nel suo canzonatorio e cantato riflesso scenico.
B.Motion. Sguardi collaterali dall’Operaestate festival a Bassano del Grappa
www.artribune.com
Di Simone Azzoni
3/9/2018
E infine i Babilonia che riprendono – nudi e crudi ‒ i microfoni, dopo le collaborazioni con terzi, per le loro classiche liturgie o-scene (nel senso di vomitate fuori dalla scena). Calcinculo non ha gli scorci lirici degli ultimi lavori, e nemmeno uno sfondo poetico su cui stagliare le invettive contro il vituperato (da Paolini ne Il Milione) popolo veneto che oggi ha paura e la domenica taglia l’erba, in una altalena di ipocrisie e idiosincrasie. Ci mancano un po’ le immagini che ci consolavano dal punk, la stessa Raimondi ora ha una americaneggiante messa in piega. Enrico e Valeria, forse per non perdersi nei labirinti dei luoghi comuni o del facile pop, li hanno affidati alla mano leggera e vivace di Lorenzo Scuda, sagace musicista degli Oblivion. Calcinculo è così una festa squilibrata, una giostra, appunto, che ha annacquato il dramma nel rap orecchiabile. Gli oggetti non sono tanto le sventolanti bandiere venete, la seggiolina della giostra o quegli estintori che forse ci riportano in Piazza Alimonda da Carlo Giuliani. Qui gli oggetti, pur assenti (rispetto ad altri spettacoli), si sono mangiati tutto. Sono diventati le confezioni, l’involucro luccicante di un contenitore di claim virali.
La misura, il centro di gravità permanente sono affidati al conservatorismo degli alpini di Bassano, che generosamente si prestano a tracciare la linea di galleggiamento sopra una superficie patinata.
Le bandiere da cui si staccano i leoni alati vanno immaginate, ci suggerisce Valeria Raimondi, il seggiolino del calcinculo, appeso solitario sul palco, è solo lo sguardo che, assemblando immagini a 360 gradi, è centrifugo e centripeto. Luca Scotton, storico direttore di scena, saltella per afferrare una sorta di volpe imbalsamata. Il vero dramma è tutto lì. L’oggetto, che un tempo era animale-animato, è ora un trofeo spelacchiato che ci ha esiliati dalla vita e ora detta le sue leggi: plastica, consumo, finitezza.
Per un teatro minore – Babilonia Teatri
www.doppiozero.com
di Attilio Scarpellini
18/10/2018
https://www.doppiozero.com/materiali/un-teatro-minore-babilonia-teatri
“Ma quanto se la tira questa!” mormora sordamente la solita signora seduta accanto a me, qui in versione alternativa e indianeggiante (siamo a Short Theatre, santuario romano del teatro contemporaneo), la stessa che, alla fine di Calcinculo di Babilonia Teatri, urlerà a squarciagola “bravi, bravi!” con le braccia protese in un applauso pieno di fervida riconoscenza: all’inizio di ogni incanto c’è sempre un principio di avvelenamento, un lieve sentore di irritazione, e non è sempre facile stabilire se si tratti di quella particolare irritazione che, diceva Ortega y Gasset, “si rivolge immediatamente contro l’artista per rimbalzare però contro chi la prova, lasciandolo inquieto nei confronti di sé medesimo”. Ma la signora che da anni frequenta i miei tentativi di recensire spettacoli, sempre diversa e sempre la stessa, non ha tutti i torti: con la sua gonna sbriluccicante e multistrati, l’informale giubbetto jeans, il microfono che sfiora il grembo, Valeria Raimondi “se la tira” davvero moltissimo, è una star strapaesana che calca una scena dove per miracolo, sotto un basso firmamento di luci, il pavimento della sala prende il colore smorto della terra battuta – di quella povera terra spelacchiata su cui atterrano i circhi e le giostre di periferie – e tutto si intona a una derisoria minorità: macchine celibi da due soldi, come gli estintori che fanno garrire le bandiere con il leone alato della liga veneta, sfilate di cani accompagnati dai loro padroni e magnificati da Enrico Castellani nelle vesti di un afasico imbonitore, cori di finti alpini con barbe e capelli veramente bianchi, un avanspettacolo di illusioni raccolte dalla polvere del paese profondo destinate a sgretolarsi appena si materializzano sul palco. Con la differenza che la Raimondi è strepitosamente brava, non solo perché sa cantare ma perché la sua gestualità è sempre in bilico tra la parodia e l’apologia della performance rock-pop, tra l’intrattenimento e il suo brusco precipizio, nascosto nei testi delle canzoni come un innesco esplosivo sotto i cumuli di vestiti di un kamikaze: senza soluzione di continuità seduce e graffia, conquista e respinge, la sua sfrontatezza si spinge fino ad apparire innocente, la sua vitalità fino a far dimenticare che il suo refrain più struggente è un inno brutale al male del secolo, “la mia depressione fa orario continuato / ho chiesto il part time ma non gliel’hanno dato / mi sono suicidato”. Funziona così con i Babilonia, da sempre e non da oggi: la potenza dei loro spettacoli è spesso concentrata nel metro, e dunque nell’oblio, non nell’accento (cioè nella memoria) con una scansione poematica talmente veloce e fluviale che gli spettatori non hanno il tempo, lì per lì, di trattenere o di decifrare tutti i detriti, gli idioletti, le invettive, le ustioni che la sua colata lavica si porta appresso, si ritrovano ricoperti di tagli quasi senza essersene accorti, il ritmo incalzante, la musica, la confezione spettacolare perfetta (e anch’essa contraddittoria nel suo sposare l’alto e il basso, il sontuoso e lo squallido) li ha anestetizzati. Ogni ferita è destinata a riaprirsi soltanto dopo, a cose fatte, appena il corpo riconquista la sua intimità con la notte, confermando la regola aurea a suo tempo enunciata da Claudio Morganti: lo spettacolo finisce quando finisce, il teatro comincia con (dal)la sua fine. Calcinculo è un concerto punk ambientato in una sagra di paese e ci vuol poco a capire che il suo comando più imperioso, la sua attrazione più invincibile non parlano tanto agli occhi, quanto a quell’organo eminentemente speculativo che è l’orecchio. Da ogni personaggio di cui Castellani e Raimondi, cantando o declamando i loro cori, disegnano l’ombra – tutto quello che ci resta del caro vecchio personaggio nel mondo in cui i comportamenti hanno definitivamente soppianto le azioni – un animoso frammento dell’attuale Cacania italica si stacca e si trasforma musicalmente in tema, con tanto di variazioni. Si va da una libertà canzonettistica che evoca immediatamente il suo contrario (Voglio la mia libertà // Mi chiudo in casa con doppia mandata / inchiodo la porta / la saldo / la blindo”) al delirio paranoico della paura percepita srotolato fino ai suoi esiti più paradossali (lasciare la porta aperta ai ladri e segregare la progenie sin dalla più tenera età), dalla canzone Comunista, che in realtà è un inno al solipsismo, fino a un poemetto, anch’esso macinato dal frugale e stentoreo dispositivo vocale dei Babilonia – qualcosa che ricorda i vecchi mitragliatori a rullo – in cui Enrico Castellani tocca il culmine di violenza e di lucidità della sua drammaturgia poetica proclamando di voler smettere di fare teatro perché c’è gente che “dentro e fuori dei teatri compie azioni che non hanno eguali”. Ed è proprio perché l’autore e performer veneto lo dice, sottraendolo a qualunque simulazione, a qualunque ammiccamento visivo, che l’atto terroristico nell’accezione ormai celebre di “grandiosa opera d’arte” (Stockhausen dopo l’11 settembre) perde qualunque ridondanza possibile (come invece accadde nella messinscena della Fura dels Baus dedicata al Dubrovka di Mosca): contro ogni tentazione di rispondere allo spettacolo con lo spettacolo, l’attentato clamoroso compiuto da “gente che in nome della buona riuscita dello spettacolo rinuncia alla vita e alla morte” viene reintrodotto in un discorso critico – critico non del terrorismo ma, appunto, dello spettacolo come forma suprema delle relazioni tra gli uomini. Crisi della spettacolarità generale, letterale, sanguinosa caduta dell’intero ordine spettacolare che l’ironia congenita del gruppo presenta nelle mentite spoglie di ciò che su tutte le scene appare più desiderabile: il successo (e, colpo mortale a certo letteralismo delle avanguardie, quel particolare successo in cui l’arte sposa la vita fino a morirne). È qui che il gioco al rilancio dei calcinculo sferra la pedata decisiva che scaglia il seggiolino fino all’azzurro più vuoto e vertiginoso, ma siamo solo in un atterrito luna park dove ce n’è per tutti – per gli ottanta euro renziani e per il “respiro asfittico, pentastellatico”, per il suprematismo delle leghe e per la liberistica società della trasparenza – un calcio in culo non si nega a nessuno, a cominciare, come ogni satira che si rispetti, da noi stessi: a forza di rotolare in su e in giù, anche la verità rischia di passare inosservata, ma non l’inavvertita striscia di sangue che il suo passaggio ci lascia sulla faccia. I cani sfilano, gli alpini cantano. Sta qui la forza inattuale del teatro minore dei Babilonia, nel nascondere la loro potenza testuale tra gli ammennicoli della più risibile insignificanza e nel farne brillare la mina al momento giusto, con tutto il rabbioso, luminoso umanismo di cui (loro e il teatro) sono capaci.
The voice of (made in) Italy
www.casicritici.com
di Stefano Casi in Musiche, Teatri
30/01/2019
Sembra passato un secolo dal sorprendente debutto di Babilonia Teatri. Il loro exploit era arrivato con il terzo lavoro, made in italy, rivelazione del Premio Scenario 2007. Uno spettacolo che irruppe sulle scene italiane con la novità di una ricerca originale e potente sui nuovi linguaggi, unita a un pungente impegno di scavo antropologico nell’Italietta dei luoghi comuni piccolo borghesi diventati pensiero di massa. Per l’occasione Enrico Castellani e Valeria Raimondi definirono la loro arte “teatro pop, teatro rock, teatro punk”, ovvero tre termini indissolubilmente legati alla canzone dagli anni 60 ai giorni nostri, che – uniti alla loro caratteristica recitazione, apparentemente debitrice al rap – definivano in modo inequivocabile il loro teatro come una ideale colonna sonora popolare del tempo presente (pop, rock, punk, rap…). Non solo ampie e lunghe citazioni di brani musicali che immergevano le loro litanie verbali in una sorta di drammaturgia-playlist, ma anche una costruzione complessiva dell’opera secondo un ritmo ‘musicale’ in senso lato, che accompagnava con ironia un insinuante immaginario kitsch.
Sono passati poco più di 10 anni nei quali il mondo sembra cambiato. Sembra: perché il mutamento era ben intuibile da tempo, eppure la trasformazione dell’Italia e degli italiani, il “cambiamento” (che è diventato pure slogan di governo), è visibilmente tangibile. E molti se lo chiedono, magari su quei social network che 10 anni fa erano appena alle origini: quand’è che siamo cambiati?La paura, diventata timone delle nostre scelte esistenziali e politiche, era già presente, così come la grettezza di un orizzonte campanilistico e razzista. Ciò che è davvero cambiato è forse l’orgoglio di questi atteggiamenti, il loro essersi trasformati da sentimento sottotraccia a guida ideale delle decisioni di una nazione. Se made in italy, con l’ambizione di descrivere questa sottotraccia nazionale, evidenziava vari aspetti dell’homo italicus, approdando alla visione di una nazione di nani da giardino, nel nuovo spettacolo di Babilonia Teatri Calcinculo l’attenzione si concentra quasi esclusivamente su uno di questi aspetti, che possiamo riassumere in una involuzione individualista nella quale i segni di una cultura popolare estrema si ingrigiscono. Dalla fenomenologia al nichilismo, verrebbe da dire. E per farlo, anche l’approccio con la canzone è cambiato. Non più playlist di objets trouvés (le canzoni famose, che nei primi spettacoli della compagnia erano semplicemente prese e fatte ascoltare), ma 7 canzoni espressamente scritte e cantate dal vivo da Valeria Raimondi, in (convincente) veste di star canora. Perché anche l’approccio con la canzone è cambiato in questi 10 anni italiani. Dal consumo al fai-da-te, da Sanremo ai vari Amici, X-Factor, The Voice of Italy, dalla dittatura delle etichette discografiche al nuovo potere dei canali social dove chiunque può pubblicare le proprie canzoni sbancando negli ascolti, dal pop-rock-punk che richiedono strumentazioni e (relativa) competenza musicale alla trap che (relativamente) chiunque può registrare in casa con effetti perfetti.
E’ in questa cornice che prende rilievo, appunto, il nuovo spettacolo di Babilonia Teatri Calcinculo, che sembra ritornare sui primi passi della compagnia, quasi fosse un remake di made in italy, o meglio uno sviluppo di uno degli episodi di quello spettacolo (magari quello dedicato a una certa mentalità registrata nelle pianure venete?), ma assorbendo nel linguaggio della canzone dal vivo, perfettamente sostenuta dalle musiche di Lorenzo Scuda, il senso stesso di un cambiamento epocale. Tramontati i riferimenti nazionalistici di made in italy (il calcio, il funerale del “grande tenore”, ma anche quelli ideali come la “sacra” famiglia), rimane solo la visione miope e nostalgica del “my backyard”, come si dice in inglese: il proprio orticello. La provincia. La provincia diffusa nel nostro Paese. La provincia che il nostro Paese è diventato, l’orticello meschino in cui si è trasformata un’Italia che in altri momenti ha saputo respirare oltre le proprie finitudini. Calcinculo è, in definitiva, il racconto di una provincia-Italia ancorata a certi rituali di una tradizione strapaesana, presi qui non come obiettivo ironico-satirico, ma per il loro semplice alludere a eventi quasi da archeologia culturale, come la stessa giostra del “calcinculo” che ha più il sapore di periferie di paese che non dei grandi luna park tecnologici di oggi, o come il coro degli alpini chiamato a chiudere lo spettacolo. Un’Italia-provincia che è disposta a concedersi ciecamente a chiunque ne voglia ascoltare il malessere da ultimo lembo del regno del benessere, e che ha l’ambizione di salire sul palcoscenico effimero di un talent show per replicare all’infinito le solite note.
Da questo punto di vista, mi sembra si sia modificato anche il rapporto con il pubblico. Non più testimone di qualcosa da osservare con amara ironia, lo spettatore avverte nelle parole il brivido sottile del riconoscersi, del rispecchiarsi e della paura di cascarci dentro. C’era qualcuno che poteva avere anche un minimo di empatia con i razzisti di made in italy (“marochini de merda / froci de merda / albanesi de merda / fioi de putane…”)? No di certo. Al contrario, come riuscire a non condividere il folgorante incipit di Calcinculo, per giunta sostenuto da una musica pop accattivante? “Voglio la mia libertà”, canta Valeria: e qui, tutti gli spettatori sentono di poter sottoscrivere quei primi secondi di spettacolo e quell’affermazione sulla libertà. Salvo scoprire subito dopo che il termine “libertà” viene declinato nel senso del chiudersi in casa, del rifiuto della socialità, della costruzione di muri per respingere il minaccioso esterno fuori dalla propria comfort zone. (L’uso del termine zona non è casuale, ripensando all’omonimo straordinario film dell’uruguayano Rodrigo Piá, che già nel 2007 descriveva con agghiacciante violenza proprio questa idea: la “libertà” individuale finalmente raggiunta da famiglie che alzano il ponte levatoio tra sé e il mondo esterno, espulso al di là del muro). Un sentimento diffuso, sempre più diffuso, e poco conta che il muro sia quello di Trump, di Netanyahu, di Orbán o il muro invisibile piantato in mare da Salvini o quello che cerchiamo di erigere attorno alle nostre casette, come tanti adulti hikikomori impauriti del mondo. Il muro sembra il reale protagonista di uno spettacolo che invece, formalmente, getta continui ponti (ma, come s’è visto, a trabocchetto) verso lo spettatore.
Il concetto della chiusura in casa, in camera, viene ribadito nel monologo successivo, dove la paura, la grande bussola degli umori personali e collettivi di questo decennio, è talmente introiettata da determinare comportamenti che oscillano dalle pratiche di prudenza che quasi tutti conosciamo e nelle quali (ancora una volta) ci riconosciamo (per esempio, telefonare a qualcuno mentre si cammina in una strada buia e isolata, o mettere l’allarme quando si esce di casa), fino a pratiche estreme e surreali. Si fa fatica a non avere empatia per il pauroso, e ancora una volta ci sentiamo sulla soglia della compartecipazione, pur osservandone con inquietudine (e sarcasmo) le paranoie. Insomma: a questo ci stiamo riducendo?
Il panorama antropologico che prende forma monologo dopo monologo, canzone dopo canzone, è sempre più inquietante eppure sempre più familiare. La casa nella quale si celebra il rito della libertà e della felicità e la provincia nella quale l’umanità non subisce le deformazioni delle metropoli sono sempre più l’orizzonte nel quale sembriamo riconoscerci. Dentro quella casa si compone “un numero verde per la felicità” oppure si sfogano pacificamente gli istinti: “nella quiete della mia casa ho voglia di sparare / dentro lo schermo posso ammazzare”, perché “la guerra è estetica” e perfino un atto di terrorismo, osservato in tv, diventa un atto puro di teatro, che rende inutile ogni sforzo artistico. Perché fare teatro quando l’Isis ha realizzato la creazione teatrale perfetta, la strage plateale, meglio di quanto potesse immaginare un Artaud? E così l’azione che vediamo scatenarsi fuori dalla nostra casa, oltre quel prato curato e tagliato ogni domenica dopo la Messa, al di là del muro che ci difende, quell’azione mostruosa (monstruum: cosa stupefacente e meravigliosa nel suo essere terribile) ci incanta, ci paralizza, ci fa sentire piccoli come ogni provinciale che si rispetti: “non so combattere e lottare per questo tempo che non so amare”, si canta (alzi la mano chi davvero può dire di amarli: e ancora una volta ci siamo ricascati dentro pure noi, gli spettatori).
Siamo nella provincia che non ha nulla di poetico, in mezzo alla nebbia che non ha nulla di romantico: come pretendere eroismo, o anche solo orgoglio, affermazione, identità? Il senso di spaesamento, di sradicamento, di confusione che ci insinuano questi tempi “che non so amare” ci prende, prende proprio tutti. Come non sentire un brivido quando si canta che in mezzo alle tempeste della Storia o semplicemente della cronaca, “il mio ombelico è il mio baricentro” (anche se poi, in un altro pezzo, si canta “non ho più un corpo per dire io, ma ho tanti alibi”)? Come non condividere la canzone in cui si dice “Mi manca un senso di appartenenza globale”? Come non ritrovarsi ripiegati nel particulare nonostante i nostri sforzi per uscirne, per provare a ripensare a un bene pubblico generale, quando tutt’attorno è confusione e minaccia? Il coro degli alpini che chiude lo spettacolo lo afferma potentemente: “mi serve un metro per misurare la realtà / sono rimasto senza unità”. E se lo dicono gli alpini, struttura retoricamente simbolica e inossidabile del nostro Paese, nucleo identitario italiano per eccellenza, la vera “voice of Italy”…
Qual è il metro? L’Italia stessa che loro rappresentano con la penna sul cappello? Un’idea? Un’ideologia? Poco prima Valeria aveva cantato della famiglia comunista, delle manifestazioni con l’effigie di Che Guevara come di un passato giovanile al quale guardare senza nostalgia: quanto tempo è passato da allora? Quanto tempo è passato su quegli ideali, quanta ruggine si è attaccata, quanta obsolescenza si è posata? Occorre “fare il tagliando ai miei ideali / senza manutenzione / non c’è rivoluzione”, come canta mentre sullo sfondo garriscono al vento le bandiere del Veneto, orgoglio di una provincia che si sente nazione, orgoglio di un partito come la Lega che basa il suo consenso su quell’ “ombelico-baricentro” che porta a costruire muri e a rinchiudersi sempre più contro un mondo minaccioso e incomprensibile, dove i terroristi islamici si confondono con i ladri che entrano di notte. E così, ecco pronto “il tagliando” delle proprie convinzioni politiche per svenderle sull’altare della paura a chi fa la voce più grossa, all’autoritario che trasforma perfino una simpatica e divertente sfilata canina in una ulteriore prova di annichilimento della volontà popolare, o meglio dell’abdicazione del popolo alle sue prerogative. Mentre quei leoni, fieri della loro identità africana, continuano a garrire inutilmente sugli stendardi da cui vorrebbero scappare, “stanchi di vivere appiccicati a delle bandiere che non li rappresentano, / delle bandiere che rappresentano una terra che non è la loro, / un cielo che non è il loro, / delle idee che non sono le loro”.
E intanto, noi siamo sempre più chiusi nella piccola felicità domestica della casetta, dove regnano “quiete e silenzio, che il resto resti fuori”, nella provincia che non ha nulla di poetico, dove sogniamo di realizzare “l’immortalità, la felicità”, e dove la verità è destinata a venir presto a galla: “La mia depressione fa orario continuato, / ha chiesto il part-time ma non glielo hanno dato, / mi sono suicidato”. E’ terminato il giro sul calcinculo, al quale tutti gli spettatori sono stati invitati con la distribuzione delle tessere: la giostra che con la forza centrifuga ti innalza verso il cielo, come il leone alato che sogna la sua Africa, ma con la forza centripeta ti tiene legato al paesello, che ti illude di essere un vincente se strappi il peluche appeso alla corda perché tu puoi avere tutto – all you can eat, all you can drink, all you can fuck – ma ti ricorda che quella è solo finzione, che il tuo orizzonte “è dopo è post / più post del post che sto per pubblicare” e che magari credi di continuare a vivere, ma ti sei già suicidato. Da tempo.
Calcinculo è la voce dell’Italia impaurita e depressa, la vera voice of Italy, che canta la libertà e la felicità, rimanendo nascosta nell’angolino più remoto della sua cameretta-rifugio: “Fate girare, sarà virale”.
NEL LUNA PARK DI BABILONIA TEATRI
www.iltamburodikattrin.com
di Carlotta Tringali
28/11/2018
Il pop rock punk di Babilonia Teatri gode di ottima salute. Questa geniale compagnia veronese ha sperimentato modalità differenti di andare in scena senza quasi mai abbandonare quel flusso-fiume di parole non interpretate, ma semplicemente dette, vomitate, che è diventato un vero e proprio marchio di fabbrica. Nel tempo ha rimodellato questo stile senza aver perso un briciolo di riconoscibilità e carica corrosiva, e oggi lo propone non più asettico, ma con maggiore foga, fino a diventare quasi rapsodico. E con Calcinculo – che ha debuttato al festival B.Motion di Bassano del Grappa per poi approdare a Short Theatre a Roma – i Babilonia compiono un ulteriore passo avanti nel loro percorso: si spingono verso un concerto pop.
Dopo alcune produzioni che li hanno visti alternarsi in scena o addirittura sottrarsi, Enrico Castellani e Valeria Raimondi tornano a calcare il palco insieme, affiancati dall’insostituibile Luca Scotton. Calcinculo sembra riportare la compagnia a quella drammaturgia taglia e cuci dello stile televisivo di Blob, con accostamenti tematici e linguistici paradossali, che contraddistingueva il made in italy delle origini: da questa istantanea ironica e contraddittoria del reale che parlava del Nord-est italiano, il focus della compagnia si è spostato e ampliato per guardare all’uomo immerso nelle sabbie mobili del presente, impossibilitato a guardare (o sognare) oltre i propri stretti confini. Se Valeria nel suo abitino rosa romantico, attenuato dal giubbino di jeans, canta con un sorriso stampato sul volto “voglio la mia libertà / no alla socialità / un numero verde per la felicità”, Enrico urla le sue paure “i miei figli devono stare al sicuro / non sono mai scesi dal letto / io voglio che mia madre ci sia sempre / io ho bisogno di certezze”; se le canzoni diventano da subito orecchiabili, il testo porta da tutt’altra parte: attraverso delle melodie allegre e spensierate entrano a gamba tesa dei macro temi/problemi della società odierna come la costruzione di muri, l’immigrazione, la precarietà del lavoro, l’apatia comunitaria. Grazie alla composizione musicale di Lorenzo Scudadegli Oblivion, che strizza l’occhio all’indie-pop di un certo Calcutta o del super pop Rovazzi, il tutto diventa una pillola indorata, un cavallo di troia travestito da unicorno contenente pensieri-macigni. E allora eccole, le sensazioni contrastanti che questo pop stridente riesce a tirar fuori dallo spettatore: si passa dall’ironia al ribrezzo, dalla felicità alla nausea; è come ricevere un pugno nello stomaco mentre l’altra mano ti porge lo zucchero filato. Nel luna park atipico e personalissimo di Babilonia Teatri gli orpelli scenici sono ridotti all’osso e ogni oggetto è una sineddoche che apre a molteplici interpretazioni, distanti – come le sensazioni che suscita continuamente lo spettacolo stesso – eppure così vicine tra loro.
Lo stesso titolo racchiude in sé le varie distorsioni della vita e della realtà, dipende da che punto di vista ci si pone rispetto a essa: il divertimento più sfrenato dell’intramontabile giostra del paese, con il suo senso di libertà e spensieratezza e il benservito che ti riserva la società spegnendo ogni entusiasmo, ogni fuoco, ogni sogno. Perché con gli estintori sempre lì pronti per eventuali incendi – che si accendono solo intimamente ma all’esterno non divampano mai -, Calcinculo brucia lentamente proprio allo stesso modo con cui si disgrega la nostra società, pezzo dopo pezzo, lasciando una scia inevitabile di brutture e controsensi. Come se avessimo perso una bussola da seguire, perdiamo il contatto con la realtà in cui viviamo dove accettiamo cose abominevoli e ci indigniamo per frivolezze; soprassediamo ad atti violenti e irrispettosi nei confronti delle persone e umanizziamo gli animali. E allora la stessa sfilata di cani, a cui il pubblico assiste divertito, scambiandosi sguardi inteneriti e allegri, accompagnata da un Enrico Castellani sopra le righe che presenta ogni concorrente con aggettivi superlativi, diventa l’ennesima contraddizione interna di un sistema in eterno cortocircuito. E non basta il coro finale degli alpini per farci ritrovare una “unità di misura per la realtà”; neanche questa istituzione che ha attraversato un secolo e rappresenta, almeno nell’immaginario collettivo di una certa generazione, una certezza può salvare questo nostro mondo dal disfacimento sociale.
Forse viene da pensare che gli stessi Babilonia siano una contraddizione: mentre continuano a sperimentare sul linguaggio dimostrano sempre di più di imparare la lezione dei classici. Vedendo Calcinculo e la sua rappresentazione della normalità o meglio dell’ordinaria follia quotidiana del nostro presente viene in mente Molière e le sue commedie amarissime che mettevano in scena i vizi della borghesia che a sua volta rideva a crepapelle delle sue stesse nevrosi. Speriamo che Calcinculo evolva in un disco di hit e che lo spettacolo-concerto, in cui si strizza l’occhio al popolare e allo stesso tempo si affina la lama che affonda nello stomaco, ci faccia svegliare dal torpore in cui tutti sembriamo addormentati. E diventare così la “tradizione della innovazione” a cui auspicava Leo De Berardinis prima ancora che i Babilonia Teatri facessero capolino nel teatro italiano.
Un metro per misurare la realtà, a suon di calcinculo
di Viviana Santoro
premiolettera22.it
02/09/2018
Quando entrano gli Alpini del Basso Veronese e si dispongono lungo la profondità del palco slacciato di Babilonia Teatri, mi rendo conto di quanto siamo tristi in queste distanze incalcolabili. Loro, “con la penna sempre alta sul cappello”, senza bisogno di alcuna presentazione, custodi di chissà quale certezza consumata nei secoli. Noi, generazione del “nuovo”, piccoli nani intrappolati in 35 cm di altezza, oltre i quali vediamo (o crediamo di vedere) solo “futuro ossificato”.
Tristi, forse un po’ nostalgici di una realtà che non riusciamo a misurare, ascoltiamo quelle voci monumentali riunite in unità corale e pensiamo a quanto sia impossibile rispecchiarvici, oggi. Oggi, senza “più croci per dire Dio”, senza “più gradi per dire caldo”, senza Che Guevara appeso al muro, senza “un senso di appartenenza globale”. Guardare quel coro-colosso e pensare: quanto siamo tristi, noi, sfilacciati in un tempo nel quale prendere decisioni in modo collettivo è diventato superfluo? Noi, che non andiamo più a votare “ma commentiamo qualunque notizia schermati da uno schermo”? Io non smetto di chiedermelo. E non lo fanno nemmeno Valeria Raimondi e Enrico Castellani, che a Calcinculo prendono i loro sogni, il pubblico e questa generazione bloccata.
Verrebbe anche da ridere a veder sfilare quei cagnoloni in platea o un Luca Scotton tutto contento mentre strimpella uno dei pochi slogan pop che ci concediamo il lusso di inneggiare nel 2018: “all you can eat, all you can drink, all you can fuck”. Verrebbe anche da ridere, se non fosse che siamo tutti un po’ stanchi di farci prendere a calcinculo, di rimanere impagliati come leoni di San Marco su “una bandiera che non è la loro, una terra che non è la loro, un cielo che non è il loro, delle idee che non sono le loro”. Con abile e rodata maestria, Babilonia Teatri ci porge lo specchio, mostrando come a calcinculo non sono loro a prenderci, ma noi. E come noi, loro, che certo non si tirano fuori dalla giostra della depressione, in attesa di comporre “il numero verde per la felicità”.
Per un attimo, dopo la poesia di Pinocchio, la narrazione di David è morto o lo sguardo materno di Jesus, sembra di vivere il déjà-vu di Made in Italy, dei suoi toni sferzanti e acuminati. In un certo senso, sì. Ma la musica, che accompagna il respiro dell’ultimo spettacolo della compagnia veneta al suo debutto, non solo introduce (stilisticamente parlando) un elemento di novità rispetto ai precedenti esiti artistici, bensì suggerisce una strada-antidoto contro i nostri “palati anestetizzati”: a eccezione di Get Lucky, non a caso relegata in platea con pubblico e cani, sul palco risuonano brani originali, realizzati in collaborazione con Lorenzo Scuda (vedi Oblivion), che interpretano la tendenza rap rimasticandola con lo studiato e consapevole vocabolario di Babilonia, in una profondità creativa che guizza via da banalità.
Un minuto di silenzio, invece, per la volpe infilzata al soffitto e per tutti gli altri animali che, ritualmente, fanno la loro comparsa negli spettacoli di Babilonia. Salutiamo l’asino e il bue, l’agnello e il pollo arrostito. Salutiamo il nostro contatto col corpo, con le cose, con la terra. Salutiamo la nostra ferinità e l’incapacità di agire. In questo magma dove non si distingue più tra vittima e carnefice, osserviamo gente “che ha fatto spettacoli in piazza, nei centri commerciali, nei mercati, sulla Rambla e al Bataclan”, mentre c’è qualcuno che le rivoluzioni preferisce farsele nella testa… o in ciabatte.
Questo è Calcinculo, gentili lettori. Un gettone, una sola corsa. Due sarebbero forse un po’ troppo dolorose… Ma non preoccupatevi, ci pensano i cani a tirarci su il morale, insieme a un materasso buttato fuori dalla finestra. Buon divertimento!
Il comizio pop di Babilonia Teatri
www.artribune.com
Marco Petroni
21/12/2018
Nell’ambito di “Strade Maestre”, stagione teatrale di Koreja a Lecce dedicata ad Alessandro Leogrande, è andato in scena “Calcinculo”. L’ultimo spettacolo della compagnia veronese.
Danno forma e struttura a un autentico presidio di crescita civica le proposte teatrali di Koreja. La realtà culturale leccese ha impaginato un programma, una stagione teatrale dedicati al compianto Alessandro Leogrande immaginati come spazio dell’inclusione e della riflessione. La conferma viene dallo spettacolo andato in scena lo scorso 15 dicembre.
Si tratta di Calcinculo, ultima produzione di Babilonia Teatri, la compagnia fondata da Enrico Castellani e Valeria Raimondi. Una scena scarna, popolata da simulacri, da poche, essenziali tracce di una civiltà in dismissione avvolta in una retromania angosciata e esilarante. È un elemento della giostra che dà il titolo alla pièce a staccarsi come icona di un mondo accelerato e appiattito su un eterno presente da cui sfuggire guardando indietro, alla ricerca di atmosfere da festa patronale di provincia o a improbabili raduni di seguaci della Liga Veneta, come suggerito dalle bandiere con il simbolo del leone alato. Altro elemento scenico è una batteria di estintori, ambiguo incastro segnico che, da una parte, allude al possibile spegnimento dell’incendio sociale che avvelena le esistenze contemporanee e, dall’altra, evoca l’apertura di questo infausto millennio a Genova con le manifestazioni contro il G8 del 2001.
UN QUOTIDIANO FUORI ASSE
È Valeria Raimondi a contribuire a questa dimensione retrò con una gestualità sospesa tra Cristina D’Avena e una popstar di provincia, ma dietro questa apparente e disturbante leggerezza si nasconde nei testi delle canzoni una lucida fotografia del nostro tempo, sintetizzata in un ritornello tagliente quanto struggente: “La mia depressione fa orario continuato / ho chiesto il part time ma non me l’hanno dato / mi sono suicidato”. Da sempre, Babilonia lavora su materiali potenti e assolutamente contemporanei presi da un quotidiano fuori asse e slabbrato, dove la potenza della messa in scena sta in una crudezza scandita con ritmi veloci, da concerto, dove noi spettatori siamo presi in una frenesia fatta di invettive declamate al microfono da Enrico Castellani, frontman dalle movenze techno-punk. Nel caso di Calcinculo siamo nel mezzo di una sagra di paese dove sfilano cani da compagnia per un’improbabile gara canina o un coro di alpini attempati che declamano la necessità di una misura, di un metro per comprendere il mondo nostro contemporaneo. È una paura fuori controllo, spesso, a emergere nelle parole declamate da Castellani: “Mi chiudo in casa con doppia mandata / inchiodo la porta / la saldo / la blindo”, un delirio della fobia dell’altro che sia il vicino o la minaccia dello straniero percepita come paranoia che immobilizza.
UN ATTO POLITICO
Tutto risulta frammentato e disperso in un crescendo che rende necessaria una particolare tecnica del tempo e dell’attenzione. Una percezione multitasking indispensabile per la sopravvivenza in un contesto selvaggio dove, come animali, non è possibile immergersi in una dimensione contemplativa, perché continuamente siamo chiamati a rielaborare le situazioni. Un’attenzione diffusa ma superficiale che contribuisce allo sfaldamento e all’incapacità di comprendere l’insieme delle situazioni. Scisso e molteplice è l’impianto drammaturgico di questo comizio pop, urlato e cantato da Babilonia Teatri. L’elemento che tiene insieme il tutto è il desiderio quasi sociologico di scavare nelle pieghe desolate di un paesaggio umano di provincia travolto dalla globalizzazione e dall’accelerazione tecnologica. Calcinculo è un atto politico, agonistico nel suo farsi senza respiro, senza pause, critica profonda alla nostra società ignorante e paradossale. Una sequenza di calcinculo ben assestati contro tutti gli asset di un sistema allo sbando nella sua cruda e violenta realtà.
Babilonia Teatri ha portato la contemporaneità al Teatro Poliziano
www.lavaldichiana.it
di Tommaso Ghezzi
29/01/2019
Cominciamo col dire che Valeria Raimondi ed Enrico Castellani – ovverosia la front-couple di Babilonia Teatri – sono due fra le menti sceniche più brillanti del nostro panorama teatrale. Hanno vinto due premi UBU: il primo nel 2009, come premio speciale per «la capacità di rinnovare la scena, mettendo alla prova la tenuta del linguaggio e facendo emergere gli aspetti più inquieti e imbarazzati del nostro stare nel mondo attraverso l’uso intelligente di nuovi codici visuali e linguistici», e il secondo nel 2011 con The End per la «miglior novità di ricerca drammaturgica». Nel 2016, la Biennale di Teatro li ha insigniti del Leone d’Argento per l’innovazione teatrale.
Questo basterebbe per far capire chi è passato per le tavole del Teatro Poliziano la sera del 25 gennaio 2019, a scuotere i corpi della platea con Calcinculo, il nuovo spettacolo della compagnia veronese (di Oppeano, per la precisione) Babilonia Teatri. La Fondazione Cantiere Internazionale d’Arteconferma la sua vocazione educativa alle forme di espressione contemporanee: abituare il pubblico – per quanto possibile, e con ovvie eccezioni di respiro – ai linguaggi moderni delle arti performative, senza mai appiattirsi nella banalità nazionalpopolare asfittica proposta dai dogmi televisivi.
Il Calcinculo del titolo è la giostra del “calcinculo”, quella che noi, in Valdichiana, chiamiamo le catene: la colonna centrale che rotea su sé stessa con i seggiolini, appesi a lunghe collane in ferro, sui quali i partecipanti al gioco cercano di prendere la coda di volpe, agganciata all’antenna laterale, spinti da dietro dal compagno verso l’alto.
Lo spettacolo è una cascata pop di rimbalzi visuali, teatro d’immagine che utilizza il linguaggio del videoclip e della ritmica dell’intrattenimento puro per raccontare le discrasie dei nostri tempi. La musica si mescola alla drammaturgia in prosa: ed è una musica glitterata, pop plasticosa, alla quale sottace il fremito sordo dell’insofferenza.
Nel percorso artistico interno all’arsenale di Venezia, alla Biennale del 2017, Charles Atlas aveva rappresentato in un grande orologio digitale il countdown della fine del mondo: allo scadere del conto alla rovescia, nell’oscurità della sala, appariva sull’enorme schermo la drag queen newyorkese Lady Bunny che annunciava la fine dei tempi con una canzone discomusic. Le dinamiche del racconto di Babilonia Teatri, per questo Calcinculo, sono le stesse: tutta la frivolezza ostentata dei nostri tempi ha bisogno di una silenziosa profondità, che manca terribilmente nelle grammatiche sociali, quindi il metodo comunicativo migliore, per parlare alle menti – passando per la pancia – è quello di adottare il linguaggio dominante per veicolare significati virtuosi. Con un po’ di Guy Debord, un po’ lettrismo del XXI secolo, Babilonia Teatri intraprende il discorso nella sillabazione del pop, del nazional popolare, per i valori assoluti dell’apertura all’altro, del non chiudersi nei propugnacoli della paura e della “sicurezza come fiera della forca”. Il parco-divertimenti da fiera di paese ha proprio questa funzione: non parlare dal palco ma abbassarsi ai toni del pubblico più basso, dimostrare la prossimità tra autenticità e rappresentazione scenica. Non c’è quarta parete, le persone vengono coinvolte direttamente. Vengono coinvolti cani (con i rispettivi padroni) per una sfilata di bellezza proprio nel corridoio tra le navate della platea; viene coinvolta la Corale Poliziana – che è apparsa nell’ultimo segmento di spettacolo per partecipare alla chiusura della performance – tutto è quindi rappresentato nei termini di vicinanza allo spettatore più comune. L’aspetto di intrattenimento innocuo e familiare è talmente prossimo alle misure del pubblico italiano, che le riflessioni sul presente arrivano morbide e pacate, a lavorare emotivamente nelle ore successive allo spettacolo.
In questa parte di millennio, in fondo, ci vuole poco per ricevere lo stigma di Teatro Civile. Basta parlare delle cose che ci sono intorno, passare dalla storia alla cronaca – dal realismo al neorealismo, per dirla in termini cinematografici – ed ecco che i gesti e le opere dell’ingegno creativo sono tacciati di “politico”. Raimondi/Castellani non posano sulle etichette e rappresentano, riempiono la scena di elementi fortemente simbolici ma speculari al pubblico italiano del tempo presente.