PADRE NOSTRO
Sulla parola padre oggi si sta combattendo una battaglia.
Il suo corpo è sporco di sangue.
Lo vediamo boccheggiare.
Attorno a lui tutti si affollano per redigere la prognosi e somministrare la cura.
Tutti ci spiegano come dovrebbe essere.
L’importanza del padre.
L’evaporazione del padre.
La legge del padre.
Come si è evoluto/involuto.
Quali saranno le conseguenze del cambiamento.
Cosa è successo, cosa succederà.
Cosa resta del padre.
Il segreto del figlio.
Genitore 1. Genitore 2. Genitore 3.
Autoritario o autorevole. Vicino o lontano.
Che relazione c’è tra funzione del padre e identità di genere.
Nel nome del padre, del figlio e dello spirito santo.
La fine del padre, l’eclissi del padre, la scomparsa del padre, la distruzione del padre, la morte del padre.
La festa del papà.
Il fu pater familias.
Padre in affitto. Padre baluardo. Apologia del padre.
Padre nostro non è una preghiera rivolta a dio.
Padre nostro qui sta per nostro padre.
La P è minuscola.
L’aggettivo precede il sostantivo.
Padre nostro è un padre coi suoi due figli.
È ciò che li unisce e ciò che li allontana.
E’ una resa dei conti che non ammette fine.
Ci chiediamo quale sia la distanza tra il padre ideale e quello reale.
Quale eredità oggi il padre possa trasmettere, indipendentemente dal fatto che sia un padre di sangue o meno.
CREDITI
di Enrico Castellani e Valeria Raimondi
con Maurizio Bercini, Olga Bercini, Zeno Bercini
direzione di scena Luca Scotton
musiche originali Lorenzo Scuda
foto Eleonora Cavallo
produzione Babilonia Teatri, La Corte Ospitale
coproduzione Operaestate Festival Veneto
scene Babilonia Teatri
produzione 2019
Video promo
“… fra quelle pozze d’acqua, in una luce ancora aurorale, la figura barbuta messa a nudo dai ragazzi acquisiva un’inaudita potenza archetipa, come un Poseidone abbattuto dal suo trono fra le onde, un’immagine primordiale.”
RASSEGNA STAMPA
Attendono che si apra il fuoco con quel mitragliamento serrato di parole che non ammette ripensamenti tipico delle drammaturgie del duo veneto. E non attendono invano, Zeno e Olga, assediano il vecchio con un martellante elenco di recriminazioni, dove la più gentile recita: “Quando mio padre mi ha partorito ce l’ha messa tutta / ma sinceramente quando mi ha partorito mia madre mi sono trovata meglio.” Per un verso Padre nostro rientra a pieno titolo nelle liturgie di Babilonia Teatri, nella loro percussione recitativa dove poesia e invettiva sono inseparabili come il grano e il loglio della parabola evangelica, con quella pointe ironica che, puntualmente, rimesta nel torbido disordine del simbolico: “Che bello il padre – salmodia il testo di Castellani nella bocca di Maurizio – che belle le sue dimissioni / le dimissioni del padre da padre che bello /…/ che bella la fine del padre / che bello il suo funerale che bello / la morte del padre che bello / che bello il paradosso del padre / che bello quel che resta del padre (…)”.
Ma per un altro verso è il contrappunto dei corpi, qui ritagliati sull’orizzonte aperto e infinito del mare, che rompe e ridefinisce il ritmo autoritario della litania: è nel gesto del padre che ghermisce la nuca dei figli affondando le loro teste nell’acqua, e in quello dei figli che poi lo affogano insieme, con altrettanta spietatezza, che si condensano secoli e secoli di tragedie e di sacrifici rituali, di vendette e di ritorni, di parricidi e di infanticidi. È il carattere cerimoniale – o ludico e cioè profano, il che è lo stesso, dal momento che sono i medesimi gli effetti prodotti – della messinscena dei Babilonia a provocare nello spettatore una ricapitolazione emotiva devastante, una specie di ricordo di tutti e di nessuno, dove chiunque riconosce il padre che ha avuto, la sua crudeltà, la sua assenza, la sua violenza, la sua reticenza, il suo fallimento, il desiderio inesausto di ricomporre la distanza con il suo corpo (di tornare a riposare nel “nulla del padre” come dice un verso di René Char) o, con un processo ancora più lancinante, le stimmate ambigue dei padri che siamo nell’era della dimissione del padre: la stessa sofferenza unita allo stesso narcisismo ferito, poiché, ancora e di nuovo – come esclamava Roland Barthes – soltanto il figlio è vivo in questa estenuante decostruzione e ricostruzione del corpo del padre che sugli scogli affioranti del mare di Castiglioncello assume l’aspetto di una deposizione (un momento che notoriamente non esiste nel testo biblico, è stato direttamente inventato nel teatro dell’iconografia).
E se è il mare, nel suo instancabile andare e venire, che lava e lenisce le ferite plurime inflitte dalla rappresentazione a un corpo che a un certo punto diviene quello disteso di una dissezione anatomica, con tanto di cerotti apposti per indicare gli organi vitali, sono i gesti con cui Zeno e Olga, i figli, rivestono il padre a rischiarare con una pietas minuta e piena di amore la scena di un sacrificio necessario non perché esso sia inscritto nella vita, come una legge o un destino, ma perché tale è nel dispositivo implacabile di una cultura, nel nostro retaggio (ne abbiamo uno, infatti, e sta proprio nell’attraversarlo facendo risuonare le pareti di un immaginario apparentemente senza memoria che consiste la forza critica del teatro dei Babilonia).
Al vertice dell’inno corporale di Padre nostro precipita una preghiera parodistica, pronunciata dai figli in coro, di una tale potenza derisoria – padre nostro che sei in cucina… ricorda i tuoi obblighi e i tuoi doveri / ma non invocare diritti – dal fare impallidire tutta la sociologia spicciola a cui il naufragio del padre ha finito per dar luogo nel tentativo di imbastire una morale par provision della paternità senza il patriarcato, ma è proprio perché il re è più che mai nudo – è addirittura scorticato – che possono ricadere, limpide e quasi inaudite, le parole del padre nostro originario pronunciate da un esausto Maurizio Bercini. Da questo spossante corto-circuito tra il padre simbolico e quello reale, alla fine sarà quest’ultimo (come è giusto) a sopravvivere, perché nella lotta tra la vita e la forma – che sono poco più di due idee – è sempre ciò che è vivo a svincolarsi e a riemergere, grondante, tagliuzzato, e non si sa come, d’ora in poi, Enrico Castellani e Valeria Raimondi potranno fare a meno del sesto atto di questo mare in cui i tre, dopo essere apparsi in un’ultima immagine con una coppa alzata, si tuffano, sguazzano, e si allontanano nuotando sotto lo sguardo commosso di un manipolo di spettatori che non applaude il loro ritorno, ma la loro felice sparizione.
C’è una provincia carnale, profonda, che insiste negli spettacoli di Babilonia Teatri, a cui il teatro consente di trasformarsi senza grandi sforzi, con un leggero scarto d’umore, imboccando le scorciatoie analogiche dell’immaginario, in altre province che, per quanto lontane nello spazio, esprimono la medesima, rabbiosa distanza dai rispettivi centri metropolitani. Ma, a pensarci bene, c’è nel teatro che si fa e si vede al festival Inequilibrio, che quest’anno dedica un’attenzione particolare alla sovversione – Tre stanze – I sovversivi (https://www.doppiozero.com/materiali/scatole-cinesi-scabia-garbugginoventriglia-gruppo-nanou) si intitola lo spettacolo di Garbuggino-Ventriglia, recensito la scorsa settimana da Massimo Marino, che ha aperto la rassegna – una vocazione a strappare dalla minorità le lingue periferiche dell’espressione artistica, a rovesciare il piatto dei valori più o meno (sempre meno) costituiti, e costituiti ovunque tranne che sulla scena.
In fondo, Francesca Sarteanesi e Luisa Bosi, non hanno fatto altro con Bella Bestia, andato in scena all’auditorium del Castello Pasquini, che portare sul palco il proprio mondo, che è un mondo di toscanità senza compiacenza, ironica, amara, a tratti persino arcigna, dove si sentono ancora i riverberi delle campagne isolate e spaccate dal sole dei romanzi di Federigo Tozzi. Ma è il come l’hanno fatto a depurarlo di colpo dei suoi idioletti e delle sue possibili derive espressive: senza rinunciare alla musica dei propri accenti ma scavando nelle proprie identità biografiche fino a recuperare un dialogo scarnificato e a tratti arieggiato dal non sense tra due donne sole, sedute su due sedie da giardino, circondate da niente, se non dal beffardo moltiplicarsi, a ogni cambio di luce, del simulacro di un cane – un doberman in vetroresina, la metaforica bella bestia del titolo pronta a mutarsi da morboso oggetto di fascinazione in ossessione senza uscita, da custode in carnefice.
Sarteanesi e Bosi parlano ascoltandosi, anche quando sulla scena le loro proiezioni figurali, visibilmente, non si ascoltano, la prima sporgendosi di più oltre il bordo del proscenio, ma, facendo vagare lo sguardo su un interlocutore inafferrabile, e perennemente assente – come i tanti improponibili partner conosciuti in rete, scartati uno dopo l’altro con un esilarante catalogo dongiovannesco al contrario – la seconda cullandosi nella propria intimità e in una stoica, quanto irrisolta, relazione con il male (fisico) che l’ha contagiata. Tra loro, il ricamo di reticenze dell’amicizia, e gli improvvisi salti in avanti di una sincerità tutta femminile, pronta a svegliare l’altra, ma incapace di applicare la medesima cura a sé stessa, e, soprattutto, il rimpallo continuo ed elusivo con cui ciascuno (donna o uomo) pensa di sedare le proprie angosce, di tenere a bada le proprie nevrosi, carezzandole e vezzeggiandole come un innocuo cagnolino da compagnia.
In questa trama piena di vuoti, scolpita da accurate zone d’ombra, potrebbe passare di tutto – persino un trattato morale sull’insondabilità del male – ma le due attrici hanno l’intelligenza di saggiare il confine tra il pianto e il riso senza mai travalicarlo, di tenersi al di qua del dire smanioso per gettare il cuore, cioè l’interpretazione, oltre l’ostacolo. Ed è in questa progressione, dapprima timida, che arrivano, colpiscono, toccano, e finalmente sono.
Si intitola “Padre nostro” il lavoro di Babilonia Teatri presentato al “Festival B.Motion” di Bassano del Grappa.
I Babilonia Teatri tradiscono comodi traguardi e facili approdi per ripartire da micro sperimentazioni parallele o spesso divergenti, con modifiche infra-sottili a quella struttura di base che li rende riconoscibilissimi. È il caso di Padre nostro visto al Bmotion di Bassano.
Pensavamo che con Calcinculo la compagnia avesse deciso di tracciare una nuova strada di contaminazione tra musica e parola, invece no. Padre nostro toglie ridondanza, elimina gli eccessi, asciuga i manierismi e lascia sul palco: tautologia, scarto e empatia. Va detto anche che la strada è più in salita che in passato, il teatro non è gremito come per le precedenti scorribande del gruppo veronese.
LA TAUTOLOGIA
Copia e ripetizione si annullano nella sovrapposizione di un padre e due figli che parlano di paternità e figliolanza. Maurizio, Olga e Zeno Bercini sono realmente padre e figli. Ma tra finzione e oggettività s’insinua uno scarto della percezione. Da tempo i Babilonia hanno risolto il divario tra attore e attante a favore del secondo: un recitato sporcato, e anti-classico, anti-accademico e spesso (per fortuna!) auto-ironico. Questa volta il contenuto-manifesto su cui lavorano Valeria Raimondi ed Enrico Castellani risiede nel passaggio, in quel fra, quello spazio d’ambivalenza tra vita e teatro, tra famiglia reale e famiglia stereotipica. Il tema è quello della paternità responsabile, paternità auspicata, paternità presente e cosciente a se stessa. Ma ciò che sul placo si declama nei modi dei Babilonia non è un prelievo dal reale né un suo doppio, o meglio è questo e altro contemporaneamente. Vediamo la realtà nuda e cruda, ma sentiamo la forma della fiaba (Hansel e Gretel); riconosciamo il reale ma percepiamo che in esso si mimetizzano estensioni provenienti da altre forme, la pittura ad esempio: il Padre è una sorta di Sant’Andrea caravaggesco, poco nobile, nudo alla meta finale. Tutto diventa immagine e dobbiamo compiere lo sforzo di mettere a fuoco l’etica che si nasconde sotto l’iconografia pop della “famiglia tipo”. La tautologia ci chiede uno sguardo attento alla dicotomia tra la violenza verbale e la debolezza di chi se ne fa portavoce, la presunta potenza del padre e la sua reale debolezza.
LO SCARTO
Il materiale drammaturgico qui non è ricco come in altri lavori dei Babilonia Teatri. Lo testimoniano anche gli oggetti: un candeliere da Chiesa, una coppa da trofeo, un cane che faticosamente arranca sul palco. Dalla produzione cannibalesca e pantagruelica dei precedenti spettacoli arrivano scarti transizionali, rimandi perduti. Sono metonimie anch’esse fragili. Qualche sussulto di anti-clericalismo, qualche balbettio sull’ipocrisia del popolo veneto “tutto taverna, cucina e giardino in cui giocare stupidamente col cane”. Gli oggetti sono schizzati fuori dall’orbita della spettacolarizzazione della merce. Una nudità disarmante tesse gli interstizi tra le parole e i corpi. Immagini orfane di senso si accampano sul palco pronte per essere incastrate in una narrazione dal sapore antico come la fiaba di Pollicino perduto nel bosco della vita. Il pubblico può ancorarle al proprio vissuto. Vedere un uomo in pigiama è una immagine disancorata da agganciare a un affresco esperienziale, basso. Cioè, tutti si sono presi cura o si prenderanno cura di un padre facendogli – prima o poi ‒ indossare un pigiama.
L’EMPATIA
I fucili puntati dai figli sul padre non generano assolutamente stati di allerta. Il figlio intona un rap, ma non c’è il sarcasmo che abbiamo sentito in Calcinculo. Nessuna empatia. La dimensione del palco brechtianamente separato dalla platea viene virtualmente ricucita con la ripetizione dello stesso brano musicale. Sul palco il padre è un corpo morto e gli organi facili metafore del loro ruolo sociale. Su un tavolo da autopsia ifigli vivisezionano il corpo del padre.
La lezione di anatomia è una lezione impartita a un genitore che ha la bocca cucita dallo scotch. Ecco l’aspetto interessante, l’infra-sottile che ritorna: il Padre subisce la rivolta dei figli che forse non sanno che prima o poi toccherà anche a loro. Uno scambio di ruoli, uno scambio di scena destinato a essere infinito.
Due spettacoli presentati in anteprima e prima nazionale al Festival Inequilibrio a Castiglioncello da Armunia, PADRE NOSTRO e IL CARTOGRAFO, di Babilonia Teatri e del collettivo Bischi/Campolo/Scarpari/Torrini/Trillini, indagano in modo diverso le relazioni familiari e collettive.
Babilonia Teatri, PADRE NOSTRO (anteprima). Lo spettacolo è uno dei site specific del Festival. E’ avvenuto sugli scogli antistanti la spiaggetta del Cardellino la mattina presto.
Enrico Castellani e Valeria Raimondi hanno messo in scena due microfoni, una figlia, un padre (al centro), un figlio con un’iconografia che allude alle rappresentazioni religiose della tradizione cristiana. Il padre, però, in questo caso non è l’onnipotente, è un padre normativo, che via via si frantuma, viene scarnificato, perdendo tutti i connotati tradizionali in questo gioco al disfacimento del padre attuato dai figli, che come chirurgi scienziati lo vogliono studiare, vivisezionare per vedere se dentro è ancora rosso, se dentro è ancora padre. In questa sorta di cannibalismo paterno da parte dei figli, la rottura, la ribellione si ricompone. Sembra di vedere un vecchio padre all’ospedale in pigiama, debole e solo, che recupera quel molto di umanità e intimità con i figli attraverso questo passaggio di disfacimento, fisico e metaforico, per ritrovare un nuovo sé. La risoluzione, come un deus ex machina della tragedia euripidea, può essere sogno, desiderio, gioco, non si sa se possibile o illusoria. La messa scena in mare ha reso di una realtà spiazzante e iperrealista lo spettacolo che involontariamente dialogava con il mondo marino circostante anche con i passi incerti, lenti e inesorabili degli attori sugli scoglio. Il padre è una presenza che fa soffocare e che ritorna come rimosso con la violenza di un padre che è vita e morte dei figli. Quando i figli lo spogliano ritorna umano, e nella sua vivisezione è come se i figli stessi gli restituissero la vita, liberandolo dalle sue fragilità che l’hanno reso insensibile e represso nella norma. Così avviene un ribaltamento in cui sono i figli a partorire il padre, in un gioco di specchi tra figli e padre che poi non sono altro che lo stesso essere umano in forme diverse: “mille volte mi hai accompagnato nel bosco e mille volte sono tornato”.
“Lasciami nudo per scegliere chi sono e cosa voglio”: e mentre lo spettacolo avviene la vita scorre sullo sfondo: una barca, le onde, un bagnante che nuota e ancora onde, l’odore del mare e l’aria fresca del mattino e anche gli attori e lo spettacolo infine vengono inghiottiti da questa vita che scorre dietro di loro. I figli sono i registi in scena e comandano loro lo spettacolo. La musica parla la lingua della tristezza leggera del blues. Lo spettacolo è circolare e la fine riconduce all’inizio in un’atmosfera e in uno spirito completamente trasformati: si è raccontato l’urgenza contemporanea di ridefinire i rapporti con il padre, non più attraverso l’esposizione e il rispetto della norma, ma nella necessità dolorante di una relazione intima: “quando mio padre mi ha partorito, la sua testa era pelosa e si è svuotata e sembrava quella di un uomo… quando mio padre mi ha partorito è arrivato in ritardo (…) quando mi ha partorito mia madre mi sono trovata meglio”.
CASTIGLIONCELLO – Il Castello Pasquini rimane sempre baluardo, sta imperioso sulla collina con i merli a creare ombre, a prendere il vento, con il dragone di rame sull’angolo a scandagliare il mare. La sera una grande proiezione illumina con scritte e logo il lato b della struttura finto medievale e dalla pineta la visione è estiva, festivaliera, frizzante e nostalgica insieme. Rimane nell’aria quella polvere di stelle di non-detto, ai margini di un bosco da favola dove perdersi tra rami e siepi, dove pungersi, dove diventare grandi. Il clima è sereno, e non parlo di quello meteorologico, l’atmosfera pacata: una delle più belle edizioni degli ultimi anni di “Inequilibrio” (ancora per la direzione della ditta Fumarola-Masi), più matura, con artisti consolidati, scelte curate, grande attenzione, molte proposte quotidiane, parole di senso. Le ore passano placide a Castiglioncello tra un tuffo dal cemento e una passeggiata lungo mare, tra le bancarelle di libri scontati, qualche pittore che tratteggia la sua tela, un gelato rischiaratore, le panchine che gettano l’occhio agli scogli, qualche vela che solca i riflessi al largo. C’è un’aria d’antan che non stona affatto, basta coglierla, accoglierla, respirarla nei passi attenuati, in questo andamento lento che ci spinge, assolati, qui dove tutto scorre uguale a se stesso, dove la sua ricchezza sta proprio in questo immobilismo che rassicura, che ristora, che conforta.
Lentezza e stallo, cappa e indolenza che abbiamo riscontrato nel toccante “Bella Bestia” (prod. Officine della Cultura, sostegno di Armunia e Kilowatt) dove, fin dal titolo, si gioca ossimoricamente tra due caratteri che tentano di affossarsi a vicenda, già sprofondati nelle loro grame vicende personali senza trovare un appiglio per salvarsi, una mano alla quale aggrapparsi per tornare a boccheggiare in superficie. Due attrici (cariche, dense, riescono a toccare gli organi interni in un’altalena di up & down) che si incastrano alla perfezione, Francesca Sarteanesi, che fa della freddezza diretta uno stile che taglia a fette la scena, e Luisa Bosi, cinicamente tenace, pugnace che va dritta al punto. Donne con la d maiuscola. Dentro questo interno cupo, pare un inverno del nostro scontento, e ovattato in un cotone doloroso e dolorante, grondante miserie e recriminazioni, escluse, emarginate o autorecluse, l’ansia e il malessere la fanno da padrone autoalimentando le paure dell’una e la sfrontata verità schiaffata in faccia dell’altra.
Hanno talmente tanti timori che lì dentro, almeno lì dentro, loro sconfitta e unico recinto dove poter essere libere, possono sfogarsi per rimanere ancorate, senza possibilità di redenzione o vendetta o rilancio o reazione, alle se stesse che conoscono, nella sofferenza accertata, nel disagio conclamato, assediate da statue di dobermann (ad ogni buio aumentano, quasi fosse la sequenza di Fibonacci) che, impassibili, le guardano, non sapendo se sono lì per proteggerle oppure per non farle uscire dal loro guscio che magistralmente si sono costruite a forza di fango e silenzi, di attese e treni perduti. Da un lato un male depressivo a confronto, in contrasto con un male inequivocabile dettato da cartelle cliniche e radiografie: qual è il più forte, il più vero, il più compassionevole? Quale quello che realmente ha più diritto di cittadinanza e di espressione? I giochi dell’immedesimazione dell’una per esorcizzare scene e personaggi della vita dell’altra sono al tempo stesso spassosi e lancinanti. Due interpreti beckettiane (hanno abiti a fiori ma appassiti; ci ha ricordato i testi di Armando Pirozzi) con inserti reali di chat vocali esilaranti e ridicole che ci portano sul terreno di che cosa cerchiamo nelle nostre solitudini fatte di tastiere e di sesso come antidoto all’infelicità. Il comico del tragico, il dramma del sorriso inopportuno: “Io ho un tumore”, “Io invece ho una cena” si lanciano. Siamo tutti troppo tesi ad ascoltarci che non sentiamo più gli altri: “Non è una questione di tempo. E’ una questione di tempo perso”. L’indifferenza disperata le ha frastornate, irrigidite, trasformate, colpite, inginocchiate; la triste e cruda verità sbattuta come uno schiaffo può essere antidoto o annientamento: la bestia, fintamente bella solo quando ti assuefai al suo morso, è sempre lì in agguato: teatro che scuote.
Se l’insoddisfazione prende alla gola come ossigeno che manca forse non è il caso di cambiare situazione o città o Stato ma proprio pianeta, anche se, nella maggior parte dei casi i guai continuano a (in)seguirci perché ce li portiamo dentro come ferite o cicatrici. La soluzione, fallace ed errata, potrebbe essere “Vieni su Marte” (prod. VQM, Gli Scarti, sostegno Officina Teatro, Kilowatt, Asini Bardasci, 20Chiavi, Mibact, Siae), un invito per cercare quel cambiamento che non è stato possibile affrontare nella nostra esistenza terrena e dove abbiamo finora fallito sul globo terracqueo forse sarà possibile centrare l’obbiettivo della conquista della felicità sopra un altro corpo celeste. L’idea, magistralmente teatralmente messa in scena dai Vico Quarto Mazzini (lontani dal non fortunato “Little Europa”), parte dal progetto reale di costruire una colonia permanente su Marte. Chi voleva poteva spedire un video di presentazione ed elencare le sue qualità, propensioni e ambizioni per essere scelti per andare a vivere e procreare sul pianeta rosso. Arrivarono oltre 200 mila candidature che intermezzano la narrazione dei VQM fatta di quadri tanto angoscianti quanto grotteschi, tanto divertenti quanto iperbolici, quadri dove Michele Altamura e Gabriele Paolocà, straordinari interpreti con grinta da vendere, dietro un velatino angosciante, si trasformano in psichiatra napoletano e concreto e marziano dolcissimo, aulico e poetico “dipingendo stelle”, in due bifolchi razzisti, in un professore precario mandato ad insegnare ai figli dei muratori che stanno costruendo come forsennati case ed edifici per la colonizzazione di Marte. La voglia di fuga declinata in più sfaccettate versioni, uno spettacolo necessario per capirci meglio, per frugare la nostra paura della morte, per scovare il nostro germe che ci fa pensare al passato per migliorare il nostro futuro non riuscendo a vivere serenamente il presente con la costante spada di Damocle sul collo della fine, più o meno imminente: teatro di qualità.
E dopo la disperazione e l’insoddisfazione ecco l’incomprensione eclatante e abbagliante nel confronto genitori-figli che esplode in tutta la sua violenza nel “Padre nostro” (prod. Babilonia, Corte Ospitale, Operaestate Veneto) dei Babilonia Teatri andato in scena in mezzo agli scogli alle prime luci del giorno tra pozzanghere di lacrime create dal mare dove poter annegare, rocce appuntite come dialoghi incandescenti, scene tattili di corpi che si cercano, si tengono, si spingono, si contrano senza incontro, si hanno, si mangiano, si mordono, si muovono come astronauti in punta di piedi su questo paesaggio lunare tagliente come fossero massi frastagliati lavici. Due adolescenti e un padre (anche Mario Perrotta si è soffermato sulla figura nel suo ultimo “In nome del padre”) duro, reazionario, urlante indicazioni e ordini e doveri e obblighi senza empatia, autoritario, dittatoriale, soldatesco, militaresco, manesco, contro (la madre grande assente, neanche nominata). Una visione del genitore maschio un po’ datata, vecchio stampo quando oggi i padri sono dimessi, attenti al politicamente corretto, impantanati se dover dare un’educazione fatta anche di rifiuti e no decisi o dire sempre di sì. Cos’è rimasto del padre in tempi di inseminazione artificiale, di adozione da parte delle coppie dello stesso sesso, di uteri in affitto e di genitore 1 e genitore 2?
Stavolta i Babilonia, Enrico Castellani e Valeria Raimondi, non sono in scena: hanno scelto invece un padre con i suoi due figli, Maurizio, Olga e Zeno Bercini in un saliscendi di emozioni, una liturgia laica di carezze e mano pesante, di battesimo quasi ad annegare fino alla spoliazione da parte dei figli del padre che rimane come un verme sulla riva ormai depotenziato e fragile, annientato come uno straccio mentre Tom Waits gracchia e raschia. Un padre di quelli che non ce ne sono più, con sigaro, birra e fucile, una fotografia di qualche decennio e generazione fa dedito alle percosse e alle botte, condito con zero dialogo. I figli che uccidono, metaforicamente, il padre puntandogli addosso carabine giocattolo, vomitandogli addosso disprezzo e astio, vendetta e punizioni in una vera e propria esecuzione da Safari. E’ un j’accuse arrabbiato, un processo, “Caro padre ti scrivo, così mi distraggo un po’”, una lettera d’addio, un funerale quando, ormai indebolito nel corpo e nella mente, gli mettono il pigiama d’ordinanza da ospizio e, forse perdonandolo nel passaggio di consegne, lo invitano a fare il grande balzo, un tuffo nel blu dipinto di blu, perché il dolore della perdita azzera il passato: teatro di forte impatto.
Infine non possiamo non citare un attore che ci ha mosso, spostato e sollecitato, Eugenio Mastrandrea, visto nelle vesti della nobildonna nella “Contessa tra i sessi” tratto da Palazzeschi in un ruolo pieno di charme e tensione in versione Conchita Wurst pasoliniana, che ci ha ricordato la lucidità e la consapevolezza di Luca Marinelli: una grande presenza scenica. Castiglioncello vale sempre, ancora, una messa.
A teatro. Da «Corpus delicti» di Alessandra Cristiani a «Bella bestia» del duo Francesca Sarteanesi-Luisa Bosi. Il Festival Inequilibrio 2019
Se c’è un presupposto per frequentare i festival «teatrali» estivi oltre la vetrina anticipatrice o raccoglitrice di spettacoli è da ricondursi alla calamitica attrazione di artisti e spettatori verso un luogo che si fa moltiplicatore linguistico. Questo avviene a Castello Pasquini, fulcro di una comunità permeabile e modulabile che si muove intorno ad Armunia con «Inequilibrio», dando senso all’idea di festival, lontano dall’intrattenimento nelle serate balneari. La sua nuova edizione dalle stanze e dal parco del Castello, con la direzione artistica di Fabio Masi e Angela Fumarola, si muove verso il mare e investe il territorio con allestimenti spesso nati proprio qui, nei soggiorni in diversi periodi dell’anno.
UN’ACCOGLIENZA preziosa per gli artisti indipendenti che possono dare continuità al proprio lavoro, come per Alessandra Cristiani, coreografa romana tuffatasi nelle immagini di Egon Schiele e riportate in Corpus delicti con l’esposizione estrema della sua nudità, conclusa da quell’intenso sguardo verso un infinito ignoto. Giocosa e morbida arriva invece Archeologia del coraggio – operacquatica, per la quale Elena Guerrini fa immergere nel mare gli spettatori e parla loro di accoglienza e rinascita. E sulle dolci percussioni di Papi Thiam riattraversa la memoria della nonna profuga istriana.
La durezza del Teatro Solvay ricopre di un’algida coltre Excelsior, la rivisitazione del gran ballo che Salvo Lombardo compie, riproducendo anche in video le celebrazioni imperialiste di fine ‘800, in una feroce sovrapposizione col nostro colonialismo. Al contrario è intimo, leggero e ironico Bella bestia dell’inedito duo Francesca Sarteanesi-Luisa Bosi, autrici di una scrittura dal ritmo comico che cerca il personaggio anche dentro le dolorose pieghe autobiografiche. Con Chi semina vento VicoQuartoMazzini lotta nel buio e a tavolino ai margini del ristorante del festival la wellesiana Guerra dei mondi in versione equadoregna, radiodramma che permette a Michele Altamura e Gabriele Paolocà un bel gioco di voce tra parola e canto.
E SITE SPECIFIC è anche l’allestimento di Babilonia Teatri che convocano gli spettatori sulla spiaggetta del Cardellino alle 7:30 del mattino per partecipare al rito del Padre nostro. La cifra è quella segnata da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, ma l’abbattimento/recupero della figura paterna è lasciato a Maurizio Bercini con i suoi due veri figli, Olga e Zeno.