FORESTO

La notte poco prima della foresta è un totem al quale ci avviciniamo con slancio e timore insieme, per dare vita a un corpo a corpo con le parole, per sussurrarle e gridarle insieme.

Non avremmo avuto l’ardore di metterci in bocca le parole di Koltès senza prima averle masticate, digerite e risputate fuori attraverso la nostra lingua madre: una lingua sporca, a metà strada tra lo slang e il dialetto: la lingua della pancia, dell’istinto, dell’umore, dell’amore, della verità, del non mediato.

La durezza e la poesia della lingua madre ci permettono di aderire a Koltès: di sporcare le parole, di assegnargli un ritmo e un suono che ci appartengono, quello della strada, dello straniero, dell’amore.

Due voci per un monologo: una parlata ed una segnata.

Due voci che si contrappongono, si incontrano e si moltiplicano: che si fanno voce sola, che si fanno unisono, che si fanno mondo.

Due voci a dialogare con una terza voce: la voce della musica elettronica suonata live sulla scena.

Un gioco di specchi in cui lingue diverse si intrecciano e dialogano tra loro.

CREDITI

cura, regia Babilonia Teatri
con Enrico Castellani e Daniel Bongioanni
Traduzione in dialetto veronese Enrico Castellani
Traduzione LIS Daniel Bongioanni
musiche live e sound design Giovanni Frison
light design Luca Scotton
consulenza scientifica Jean Paul Dufiet
Interprete LIS Andrea Consolaro
consulenza accessibilità Ass. Fedora
comunicazione non verbale Luca Falbo
organizzazione Serena Pallanch
co-produzione Pergine Spettacolo Aperto, OperaEstate Festival, Teatro Scientifico di Verona
Con il sostegno di Fondazione Caritro
In collaborazione con l’Università degli studi di Trento

“Il Foresto del titolo naturalmente richiama le foreste del testo originale e in veneto indica proprio il cuore della drammaturgia di Koltès, ovvero essere straniero, forestiero.”

Andrea Pocosgnich, Teatro e Critica

RASSEGNA STAMPA

Straniero e senza voce

Ma perché nessuno ci aveva mai pensato?
È la prima domanda che passa per la testa dopo aver visto questo spettacolo in cui il protagonista parla un linguaggio costruito non con le parole, ma con i gesti delle mani.
Daniel Bongioanni è un giovane performer che senza un filo di voce, utilizzando la lingua dei segni (Lis), dialoga in scena con il dialetto veneto di Enrico Castellani, anima di Babilonia teatri con Valeria Raimondi.
Lo spettacolo che fonde linguaggi così differenti per crearne uno tutto nuovo attraverso cui parlare al pubblico si intitola “Foresto” ed è tratto da “La notte poco prima delle foreste” di Bernard Marie Koltès, scritto dall’autore francese nel 1977 eppure capace ad ogni nuova lettura di dare una sfumatura diversa alla parola
straniero (produzione Pergine Spettacolo Aperto, Operaestate Festival, Teatro Scientifico di Verona).
“Foresto” ha debuttato al Pergine Festival in una ex rimessa per le carrozze, uno spazio che Bongioanni usa ed esplora con il corpo e con le mani, in sincronia con le
parole di Koltes in versione veronese pronunciate da Castellani, e con la musica elettronica live di Giovanni Frison a fare da trait d’union, mentre sullo schermo
scorrono le parole scritte.
Il risultato?
Un monologo potente che trascina il pubblico -finalmente formato anche da persone sorde- in un vorticoso viaggio notturno nell’animo umano. Daniel attraversa la
periferia di una città in cui si sente straniero -foresto in Veneto- lui che con quelle mani non fa altro che gesticolare. Tenta di nasconderle. E cerca un compagno a cui offrire un caffè, ma quando si è stranieri si è privati di tutto, dei soldi, di un lavoro, di una casa, di un amore, di una propria identità. In questa lunga notte incontra dei bastardi che lo prendono in giro e una ragazza che vive lungo le rive del fiume. Ma quando lei sparisce la rabbia esplode. Intanto i linguaggi si mescolano e si moltiplicano quasi all’infinito, ampliando il grido disperato di chiunque si senta “foresto”.

Il teatro di ricerca insegue da sempre l’utopia dei nuovi linguaggi, il sogno delle nuove forme. Talvolta, quando tutto sembra già sperimentato, basta dirigere lo sguardo altrove, in un luogo prossimo ma inesplorato. Accade quando si rompono i tabù e si forzano i confini, quando la disabilità in scena ad esempio non ha obiettivi sociali o terapeutici ma diventa nuova possibilità estetica per un nuovo pubblico. È accaduto a Pergine Festival, ma è sempre più presente un movimento tra danza e teatro in cui l’artista disabile è protagonista e creatore. Anche la Lingua dei Segni Italiana ha cominciato a intercettare il palcoscenico della ricerca contemporanea con interessanti sviluppi: recentemente su queste pagine è stato raccontato Monumentum di Cristina Rizzo e Diana Anselmo, e ora ha debuttato il nuovo e bellissimo spettacolo di Babilonia Teatri, Foresto.

Alla destra del palco c’è Enrico Castellani, stringe il microfono in una mano e di fronte, su un’asta, ha un laptop. Recita – ma è cone un canto – parole in veneto, anzi veronese per la precisione, è appassionato, preciso: il corpo si piega in avanti come quello di un cantante rock all’apice della performance, con una ritmica potente, ma che si discosta dall’abituale scansione metrica dei Babilonia. Anche perché qui le parole sono di Bernard-Marie Koltès e Castellani rimane ancorato alla vertigine della Notte poco prima delle foreste che grazie alla traduzione dialettale si arricchisce di una musicalità naturale e di un’asprezza che rende ancora più ruvido questo racconto di anime nel buio. Alla sinistra di Castellani, in mezzo al palco, protagonista della pièce, c’è Daniel Bongioanni, performer sordo che attraverso la lingua dei segni recita il testo (ne è anche traduttore) con una fisicità dirompente e una mimica, che con la sua verve grottesca, ha un potere magnetico per la platea. Sullo sfondo il monologo viene proiettato in italiano chiudendo così il trittico linguistico di un’opera che appare semplicissima per il pubblico celando però al contempo diversi livelli di complessità e sfumature.

Siamo a Pergine per la seconda edizione a guida Babilonia Teatri dello storico festival trentino, Valeria Raimondi – l’altra metà della compagnia veneta che da vent’anni ciclicamente scuote il teatro italiano – mi ha spiegato come durante la ricerca si sia aperto un mondo inesplorato: l’inclusività è uno dei fili rossi del festival e così l’accessibilità per spettatori ciechi o sordi. Babilonia ha spesso lavorato con corpi altri e artisti disabili, ma qui il focus appunto è anche sulla platea: numerosi spettacoli del festival prevedevano infatti sovratitoli oppure audio descrizioni. Ed è stato proprio il lavoro su questo nuovo spettacolo, Foresto, e l’incontro con Bongioanni a fare emergere il piano spettatoriale, a cui dovrebbero cominciare a guardare con maggiore sistematicità e impegno anche altri festival e teatri; a partire da una semplice dotazione informativa, ovvero la presenza di un programma in cui siano segnalate le diverse possibilità di apertura per pubblici con disabilità.

Il Foresto del titolo naturalmente richiama le foreste del testo originale e in veneto indica proprio il cuore della drammaturgia di Koltès, ovvero essere straniero, forestiero. Qui l’adattamento di Castellani fa una piccola ma necessaria virata, lo straniero diventa la persona sorda nella nostra società abilista e il viaggio del protagonista diventa dunque anche il viaggio di chi deve trovare un modo di comunicare, di chi agita le mani senza essere capito, anzi ricevendo solo derisione.

Comincia con la pioggia il peregrinare di una voce che non può fare a meno dell’altro, di nominarlo: «Eri dietro l’angolo quando ti ho visto», con quella celebre seconda persona singolare che è come un vocativo per lo spettatore. Un uomo sotto la pioggia cerca una stanza per dormire una notte, se dovessimo incontrarlo come reagiremmo? Lo aiuteremmo? Oppure anche noi penseremo: «cosa fa con quelle mani?», «Sa falo con quele mane? Elo mia bon de star fermo?»

Dopo qualche minuto si comprende che quest’uomo perso nella notte non cerca solo una camera per dormire, ma un compagno, qualcuno con cui sfidare il destino. Il testo, primo successo tra le drammaturgie di Koltès, debuttò nella sezione off del Festival di Avignone del 1977 con l’interpretazione di Yves Ferry; erano gli anni della fede comunista per il giovane autore, cosciente e dolente per la tipica contraddizione dell’artista che si definisce comunista mentre è alla famiglia borghese che deve il proprio sostentamento. L’idea del personaggio di Koltès è quella di fondare un sindacato internazionale, che difenda i più deboli, oltre le frontiere. Tutto si mescola, la politica, la solitudine e la solidarietà. Il sesso va sacrificato per una causa più alta: «non bisogna mia farselo vegnar duro / no bisogna mia vegner,/ bisogna controllarse a tutti i costi- perchè l’è lì che i ne speta per fregarne- fin quando la me idea de sindacato internazionale non la vinsarà, / allora sarà tutto nostro, bar, strade, puttane, i butei con le catene e i bastoni, tutta la terra e tutto el ciel / allora i sarà i foresti a goder». Come un fiume in piena, come un poema senza voce ma pieno di parole, mentre la musica elettronica dal vivo e il sound design di Giovanni Frison vibrano nei bassi per riverberare sul corpo del performer – Babilonia ha dovuto calibrare l’impatto musicale rispetto a una platea di persone sorde usando anche le luci con un criterio ben preciso.

In questa versione dell’opera il lato simbolico cresce esponenzialmente e il dato reale riferito all’incapacità di esprimersi a parole sfuma lentamente, non c’è bisogno di ulteriori riferimenti. Il protagonista è il giovane e formidabile interprete della lingua dei segni, oppure l’attore quarantenne alla sua sinistra? È il performer con la faccia pulita oppure il ruvido interprete? Siamo noi persi nel buio delle nostre esistenze, è l’immigrato ai lati delle nostre strade, sono gli occhi di chi non ha nulla quando incontrano chi è nato dalla parte fortunata del mondo.